Quanto costa un invstigatore privato o Detective privato per un servizio investigativa a Milano? A livello di tariffe , per un servizio efficace e concreto la tariffe orarie di circa 50 € all'ora per agente operativo, mente la tarifa giornaliera le agenzia investigative generalmente richiedono tariffe giornaliere tra 600 e 1.200 per ogni investigatore privato impiegato.Indagine investigativa, Richiedi una consulenza all’agenzia Investigativa IDFOX Investigazioni Private dal 1991.
Indagine investigativa, gli investigatori seguono protocolli rigorosi per raccogliere prove, analizzare testimonianze e costruire un caso solido. Alcuni aspetti fondamentali includono:
1. Scena del Crimine – Gli investigatori forensi raccolgono prove fisiche (DNA, impronte digitali, fibre, residui di sparo) e fotografano ogni dettaglio. La catena di custodia è essenziale per non contaminare le prove.
2. Analisi Forense – Oltre al DNA e alle impronte, si analizzano dispositivi elettronici, registrazioni di telecamere di sicurezza e dati telefonici. Il digital forensics è sempre più importante.
3. Interrogatori e Testimonianze – Gli investigatori devono essere esperti nel rilevare incongruenze nei racconti e nel condurre interrogatori strategici, magari con il supporto di profiler psicologici.
4. Sorveglianza e Pedinamenti – Tecniche di osservazione discreta vengono usate per raccogliere prove senza che il sospettato ne sia a conoscenza.
5. Collaborazione con Esperti – Oltre alla polizia, le indagini coinvolgono criminologi, analisti finanziari (per crimini economici), esperti di cybersecurity, ecc.
6. Ricostruzione degli Eventi – Una volta raccolte le prove, gli investigatori devono creare una narrazione logica e credibile, in grado di reggere in tribunale.
Se hai in mente un caso specifico o un ambito (ad esempio, crimini informatici, omicidi, frodi), posso approfondire di più!
Quanto costa un investigatore privato , specializzato, per pedinare?
Dipende da tantissimi fattori quali: le ore di servizio, i km, il tipo di pedinamento, tipo auto, moto, a piedi, in aero con il drone, con il gps. ecc, e via via dicendo; ma di norma un professionista investigatore con l’ausilio della tecnologia costa molto di piu della tariffa oraria base. Le tariffe orarie variano da investigatore a investigatore: in media, il costo è di circa 50 euro all'ora. Oltre alla durata dell'investigazione ed il tipo di investigazione.
Cosa non può fare l'investigatore privato?
Quanto costa investigazione Infedeltà?
Quanto prende investigatore privato?
Operiamo nel settore investigativo dal 1991, sia in Italia che all'Estero, avvalendoci dei nostri migliori collaboratori e corrispondenti internazionali. Siamo inoltre accreditarti presso l'ordine degli avvocati di Milano, ed autorizzati dalla Prefettura di Milano.
Professione Investigatore Privato; Detective Piruvato
Professione detective, come diventare investigatore privato
necessari per fornire consigli utili durante il tuo percorso lavorativo.
Se hai fiuto, intuito e passione per l’investigazione, il mestiere dell’investigatore privato o detective, per dirla all’inglese, fa al caso tuo. Le investigazioni sono un campo d’azione molto delicato, quindi è bene conoscere tutti i segreti che riguardano questo mestiere affascinante.
Come diventare investigatore privato: consigli pratici per aspiranti detective: La legislazione italiana in vigore descrive gli investigatori privati come coloro che possiedono una specifica licenza per poter svolgere questa attività. La loro figura è riconosciuta a livello nazionale, ed è soggetta a precise normative e leggi che ne regolamentano caratteristiche e competenze Art.134 Legge del TULPS.
Cenni di storia
All’inizio del XX secolo, le leggi che delimitavano la figura del detective erano le stesse poste a regolamentare gli istituti di vigilanza. Successivamente, nel 1926, vi fu una regolamentazione ancora più specifica che delineava le caratteristiche specifiche degli investigatori privati. Si gettarono così le basi per il concetto di “licenza”, ovvero di un documento formale appositamente rilasciato dalle prefetture necessario per poter esercitare questa professione.
A questa rudimentale legislazione si affiancarono, nel 1989, nuove disposizioni con il fine di regolamentare ancora di più questa attività. Le nuove leggi prevedevano come requisito il possesso di specifiche abilità professionali, ulteriormente definite dai decreti del 2010 e 2011. L’investigatore privato diventa quindi una figura professionale a tutti gli effetti, regolarmente normata ai sensi di legge.
La classificazione odierna riguardante la figura dell’investigatore privato
Con gli ultimi decreti si è voluto suddividere la professione di investigatore privato secondo precisi crismi, stabilendo requisiti e funzioni di ciascuna categoria. In particolare, esistono quattro differenti tipologie di investigatori privati:
* Investigatori titolari: in possesso di licenza, gli investigatori privati titolari possono esercitare la professione in maniera autonoma e aprire la loro agenzia investigativa con la possibilità di assumere investigatori autorizzati dipendenti.
* Investigatori dipendenti: non possono esercitare in maniera indipendente, ma possono essere assunti e collaborare con un investigatore privato titolare o con una agenzia investigativa riconosciuta.
* Informatori commerciali titolari: si occupano di investigazione relativamente agli ambiti aziendale e commerciale. Possono investigare sui comportamenti di alcuni dipendenti, proteggere brevetti e copyright, e investigare perdite di denaro inusuali. Possono esercitare la professione autonomamente o aprire la loro agenzia assumendo informatori dipendenti.
* Informatori commerciali dipendenti: non possono esercitare in maniera indipendente, ma possono prestare i loro servigi presso una agenzia riconosciuta o presso un informatore commerciale indipendente.
Chi fa cosa? La distinzione tra investigatori privati e informatori commerciali
Se hai deciso di intraprendere questa professione, la prima cosa che dovrai decidere è che tipo di figura investigativa vorrai diventare. Da questa scelta dipenderanno i requisiti necessari per poter svolgere la tua attività entro i limiti imposti dalla legge. Per renderti più semplice la decisione, puoi leggere le righe che seguono.
La differenza tra investigatori privati e informatori commerciali è netta. Se i primi si occupano principalmente della sfera privata e della vita civile, gli informatori commerciali sono specializzati nel lavorare con aziende e imprese, che possono richiedere i loro servigi in una serie di circostanze. Gli informatori si occupano di raccogliere ed organizzare dati, di verificare la veridicità dei bilanci, di investigare i debitori, e di altre attività che aiutano i proprietari di azienda nella gestione delle loro imprese.
Le mansioni degli investigatori e degli informatori
In maniera ancora più specifica, vediamo quali sono le varie mansioni svolte dagli investigatori privati e dagli informatori commerciali.
* Nel privato: si tratta di ottenere e organizzare le informazioni per conto di cittadini privati, ad esempio in funzione di una loro tutela legale. Possono essere informazioni che riguardano la sfera matrimoniale e familiare, ma anche patrimoniale e riguardanti l’eredità. Ancora, possono essere indagini volte a scovare indizi e prove da utilizzarsi nel corso di una disputa legale.
* Per le aziende: si tratta di collaborare con entità e società pubbliche e private con il fine di raccogliere informazioni che possano rendersi utili per tutelare i diritti, solitamente in sede legale. Si tratta spesso di casi in cui le aziende vogliono tutelare i dipartimenti di ricerca e sviluppo, i brevetti, ed altri beni definiti immateriali. A volte si indaga la fedeltà e la correttezza dei lavoratori dipendenti per evitare casi di fuga di informazioni sensibili.
* Per i bilanci: gli imprenditori possono aver bisogno di indagare su mancanze a livello contabile, sparizioni e differenze negli inventari, o anche semplicemente di controllare le eventualità di taccheggio (furto in negozio).
* Per la raccolta di informazioni commerciali: gli investigatori collaborano con enti privati (ma anche pubblici) per raccogliere ed analizzare dati di tipo industriale, economico, produttivo e finanziario, sempre rispettando le normative sulla privacy vigenti.
Gli investigatori privati o gli informatori commerciali ottengono questi dati attraverso una serie di attività normate ai sensi di legge, e quindi autorizzate. Si tratta degli appostamenti, dei pedinamenti, della documentazione audio e video reperita, ma anche delle informazioni ottenute con la localizzazione satellitare.
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Requisiti relativi agli investigatori e informatori commerciali
Esistono specifici requisiti per poter esercitare queste professioni, stabiliti ai sensi di legge. Vediamo quindi quali requisiti devi avere per intraprendere questa carriera.
Investigatori privati titolari
Come abbiamo detto in precedenza, gli investigatori privati titolari operano nel campo del privato e possono farlo in maniera indipendente. Per poterlo fare, devono dimostrare di:
* Essere in possesso di una delle seguenti lauree triennali: Psicologia Forense, Scienze Politiche, Scienze dell’Investigazione, Economia; alternativamente devono avere una laurea in Giurisprudenza.
* Aver praticato un tirocinio di almeno 3 anni come lavoratori dipendenti presso un investigatore privato autorizzato da un minimo di 5 anni, al termine del quale l’investigatore autorizzato rilascerà un certificato di esito positivo.
* Aver frequentato con successo i corsi organizzati da Università e centri di formazione riconosciuti dal Ministero dell’Interno.
* Oppure: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
Investigatori privati dipendenti
Ecco invece i requisiti per gli investigatori che vogliono esercitare la professione come dipendenti:
* Diploma di scuola media superiore.
* Tirocinio di 3 anni e almeno 80 ore mensili presso un investigatore privato titolare che abbia esercitato la professione ai sensi di legge per almeno 5 anni.
* Aver preso parte a corsi specifici presso Università o altri centri di formazione professionale certificati.
* In alternativa: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
Informatori commerciali titolari
Per questa particolare specializzazione i prerequisiti sono simili a quelli delle voci precedenti. È quindi necessario:
* Aver conseguito una laurea triennale in Psicologia Forense, Scienze Politiche, Economia, Scienze dell’Investigazione o Scienze Politiche.
* In alternativa: essere stati titolari di impresa individuale o amministratori di società per un minimo di 3 anni e da non più di 5 anni.
Informatori dipendenti
Per gli informatori dipendenti, questi sono i requisiti:
* Aver conseguito un diploma di scuola media superiore.
* Aver svolto una attività di praticantato per almeno 3 anni presso un informatore commerciale con almeno 5 anni di servizio autorizzato.
* Aver partecipato a corsi specifici presso Università o centri di formazione riconosciuti.
* In alternativa: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
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Come ottenere la licenza di esercizio
Una volta soddisfatti i requisiti stabiliti nei paragrafi precedenti, se vuoi diventare investigatore o informatore autonomo dovrai rivolgerti ad una prefettura per conseguire la tua licenza.
Richiedere e rinnovare la licenza
Per i primi 5 anni dal suo conseguimento, il rinnovo della licenza sarà effettuabile su base triennale e dipenderà dall’avvenuta frequentazione di corsi di perfezionamento e aggiornamento. La licenza degli investigatori dipendenti è invece subordinata a quella del titolare dell’istituto.
Da presentarsi alla prefettura al momento di richiedere la licenza, devi redigere un progetto tecnico che includa i seguenti dettagli:
* Sede e sedi satellite (non è possibile stabilire la sede presso il proprio domicilio o presso uno studio legale già esistente).
* Personale impiegato.
* Attestati circa i requisiti.
* Deposito o cauzione (in caso di investigazioni il deposito ammonta a 20.000 euro; se si tratta di informazioni commerciali il deposito raddoppia e corrisponde a 40.000 euro; per le sedi secondarie il deposito è di 10.000 euro; si aggiungono 5.000 euro per ogni voce o tipologia di servizio scelta).
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Ultime considerazioni per esercitare come investigatori privati
Ottenuta la licenza di esercizio, assicurati che non ti venga revocata seguendo questi semplici passaggi:
Esponi il tuo tariffario bene in vista
Ricorda che devi obbligatoriamente esporre in maniera permanente il tariffario relativo a tutte le prestazioni che svolgi. Non potrai svolgere mansioni ulteriori rispetto a quelle indicate nel tariffario o ricevere compensi più alti, e non potrai inoltre ricevere pagamenti da persone sprovviste di documenti identificativi.
Mantieni un registro di polizia
Si tratta di un documento che riporta i dati dei tuoi clienti e dei soggetti delle indagini. Devi conservare tale registro per almeno 5 anni e devi mostrarlo alle forze dell’ordine ogni qual volta ti venga richiesto.
Munisciti di tesserino identificativo
Dovrai munirti di tesserino identificativo elettronico, ovvero un chip contenente tutti i tuoi dati identificativi secondo il modello stabilito dal Ministero dell’Interno.
Ora che sai come diventare un investigatore privato, quale ruolo svolge, in che contesto opera e quali competenze deve possedere questa figura professionale, puoi decidere se questa professione fa per te.
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Infedeltà coniugale: ultime sentenze
Violazione degli obblighi matrimoniali; crisi del rapporto di coppia; motivazione della separazione e addebito per violazione dell’obbligo di fedeltà conseguente ad una relazione extraconiugale di dominio pubblico.
Indice
* 1 Crisi della coppia, infedeltà, separazione
* 2 Infedeltà: quando è escluso l’addebito della separazione?
* 3 L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale
* 4 Adulterio e intollerabilità della convivenza
* 5 Determinazione dell’intollerabilità della convivenza
* 6 Valutazione dell’addebito della separazione
* 7 Infedeltà successiva alla crisi coniugale
* 8 Nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale
* 9 Valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi
* 10 Addebito della separazione: onere della prova e preesistenza della crisi coniugale
* 11 Pronuncia di addebito per infedeltà: riparto dell’onere probatorio
* 12 Pronuncia di addebito per infedeltà: presupposti
* 13 Comportamento cosciente e volontario, contrario ai doveri del matrimonio
* 14 Infedeltà: causa dell’addebito della separazione
* 15 Infedeltà, addebito della separazione e riparto dell’onere probatorio
* 16 Stabile relazione extraconiugale
* 17 Infedeltà: addebito della separazione al coniuge responsabile
* 18 Richiesta di separazione con addebito
* 19 Violazione dell’obbligo di fedeltà
* 20 Infedeltà coniugale e tutela aquiliana
* 21 Nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale
* 22 L’infedeltà coniugale
* 23 L’addebito della separazione per infedeltà coniugale
* 24 Degradazione del rapporto coniugale
* 25 Offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge
* 26 Infedeltà coniugale: revocazione della donazione per ingratitudine
* 27 Infedeltà coniugale e investigatore privato
* 28 Violazione dei doveri giuridici scaturenti dal vincolo matrimoniale
* 29 L’addebito della separazione e l’affidamento condiviso della prole
* 30 L’infedeltà coniugale dalla consorte e test del Dna
* 31 La circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale
* 32 L’inconciliabilità della prosecuzione del vincolo coniugale
* 33 Fatto ingiusto per la morale della famiglia
Crisi della coppia, infedeltà, separazione
La dichiarazione di addebito implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento di uno o di entrambi i coniugi, consapevolmente e volontariamente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza. Tale principio trova applicazione anche in riferimento all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, di regola ritenuta idonea a giustificare l’addebito della separazione al coniuge fedifrago, salvo venga accertato che nel caso concreto l’infedeltà si sia manifestata in una situazione di deterioramento dei rapporti già in atto con una convivenza già ritenuta intollerabile dalle parti.
Cassazione civile sez. I, 02/09/2022, n.25966
Infedeltà: quando è escluso l’addebito della separazione?
La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell’art. 151 c.c. quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge (escluso, nella specie, l’addebito della separazione in capo alla moglie, atteso che l’iscrizione della donna a siti web di incontri era stata scoperta dal marito solo dopo che quest’ultimo aveva già depositato il ricorso per la separazione coniugale).
Cassazione civile sez. VI, 24/05/2022, n.16822
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale
Ai fini dell’addebitabilità della separazione, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale costituisce una violazione particolarmente grave, sufficiente, di regola, a determinare l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza ed a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale (con un accertamento rigoroso attraverso il quale emerga la preesistenza di una crisi già in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale).
Tribunale Benevento sez. I, 03/05/2022, n.1035
Adulterio e intollerabilità della convivenza
Se la richiesta di addebito si fonda sull’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, posto che l’adulterio rappresenta una violazione particolarmente grave degli obblighi di cui all’art. 143 c.c. che determina normalmente l’intollerabilità della convivenza, tale comportamento, se provato, giustifica l’addebito della separazione al coniuge responsabile ed in tale ipotesi i fatti che escludono il nesso di causalità tra l’adulterio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza devono essere provati dalla parte resistente alla domanda di addebito.
Tribunale Vibo Valentia, 21/04/2022, n.307
Determinazione dell’intollerabilità della convivenza
Grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (nella specie, era stata provata l’esistenza di una crisi matrimoniale in atto precedente al presunto comportamento di infedeltà coniugale da parte della moglie).
Cassazione civile sez. VI, 06/04/2022, n.11130
Valutazione dell’addebito della separazione
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Tribunale Bari sez. I, 04/04/2022, n.1200
Infedeltà successiva alla crisi coniugale
Nella separazione coniugale, sebbene siano provate le condotte violative dell’obbligo di fedeltà da parte di un coniuge, l’addebito va escluso qualora risulti provata l’anteriorità della crisi della coppia rispetto all’infedeltà: ciò infatti esclude il nesso causale tra la condotta fedifraga e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Tribunale Cuneo sez. I, 15/03/2022, n.259
Nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Tribunale Bari sez. I, 22/02/2022, n.714
Valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi
Ai fini della pronuncia di addebito nella separazione, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Tribunale Bari sez. I, 27/12/2021, n.4658
Addebito della separazione: onere della prova e preesistenza della crisi coniugale
Ai fini dell’addebito della separazione, la regola generale per cui l’onere di provare, sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che nascono dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questo comportamento nel rendere intollerabile la convivenza, grava sulla parte che richiedente l’addebito, rimane superata quando si constati la mancanza di un nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, in maniera tale che risulti la preesistenza di una crisi matrimoniale già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Tribunale Teramo, 03/12/2021, n.1084
Pronuncia di addebito per infedeltà: riparto dell’onere probatorio
La pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti a carico dei coniugi; è invece necessario accertare che tale violazione sia stata causa efficiente della crisi coniugale. In merito invece alla ripartizione dell’onere della prova, grava sulla parte che richieda l’addebito per inosservanza dell’obbligo di fedeltà l’onere di provare la condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda deve provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà.
Tribunale Monza sez. IV, 15/11/2021, n.2068
Pronuncia di addebito per infedeltà: presupposti
La pronuncia di addebito nella separazione coniugale presuppone due condizioni: 1. un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio; 2. il nesso tra tale condotta e la situazione di intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Ciò premesso, se da un lato è vero che l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave che determina di regola l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e può giustificare l’addebito della separazione, è vero altresì che affinché l’infedeltà possa assurgere a causa di separazione con addebito bisogna constatare anche il nesso causale tra l’infedeltà e la crisi coniugale. Ad ogni modo incombe sulla parte richiedente l’addebito l’onere di provare la condotta infedele del coniuge e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere della controparte provare che la crisi matrimoniale sia anteriore all’accertata infedeltà.
Tribunale Locri sez. I, 02/11/2021, n.761
Comportamento cosciente e volontario, contrario ai doveri del matrimonio
Presupposto essenziale dell’addebito è un comportamento cosciente e volontario, contrario ai doveri che derivano dal matrimonio ed il giudice è chiamato ad accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal contegno oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi e, dunque, se sussiste un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto, la violazione dei doveri di cui all’art. 143 c.c. sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale e, quindi, per effetto di essa. Ne consegue che grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà.
Tribunale Torino sez. VII, 17/09/2020, n.3064
Infedeltà: causa dell’addebito della separazione
L’infedeltà coniugale può essere causa (anche esclusiva) dell’addebito della separazione solo quando risulti accertato che la crisi dell’unione sia ad essa causalmente riconducibile; viceversa, l’infedeltà, se successiva al verificarsi di una situazione di intollerabilità della convivenza, non è, di per sé solo rilevante e non può, conseguentemente, giustificare una pronuncia di addebito.
Tribunale Ravenna sez. I, 03/09/2020, n.665
Infedeltà, addebito della separazione e riparto dell’onere probatorio
L’infedeltà viola uno degli obblighi direttamente imposti dalla legge a carico dei coniugi dal cit. art. 143, secondo comma, c.c. così da minare in radice l’affectio familiae in guisa tale da giustificare, secondo una relazione ordinaria causale, la separazione e l’addebito al coniuge che detta infedeltà ha commesso.
La violazione dell’obbligo di fedeltà costituisce quindi la premessa, secondo il cd. id quod plerumque accidit, dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, per causa non indipendente dalla volontà dei coniugi, e quindi costituisce di per sé sola motivo di addebito. Una volta dimostrata la violazione dell’obbligo di fedeltà, nessun altro onere probatorio grava in capo al coniuge tradito. Spetta invece al coniuge che ha violato l’obbligo di fedeltà, dare la prova della mancanza del nesso eziologico tra detta violazione e la cri-si coniugale.
Per andare esente dalla pronunzia di addebito, questi deve dimostrare che il suo comportamento si è inserito in una situazione matrimoniale già compromessa e connotata da un reciproco disinteresse; in altri termini, che la crisi del rapporto matrimoniale era già in atto.
Tribunale Savona, 01/08/2020, n.463
Stabile relazione extraconiugale
La violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave di tale obbligo, che, determinando normalmente l’intollerabilità della convivenza, deve ritenersi, di regola, causa della separazione personale dei coniugi, e, quindi, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempre che non si constati la mancanza del nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Tribunale Ravenna, 09/03/2020, n.229
Infedeltà: addebito della separazione al coniuge responsabile
In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Corte appello Perugia, 20/01/2020, n.33
Richiesta di separazione con addebito
Quando la separazione con addebito viene richiesta da un coniuge che rilevi l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale da parte dell’altro, grava su di esso l’onere di provare l’esistenza del nesso di causalità intercorrente tra la condotta infedele posta in essere dall’altro coniuge e la conseguente intollerabilità del prosieguo della convivenza. In tale ipotesi, grava sul coniuge che eccepisce l’inefficacia della domanda di separazione con addebito per infedeltà l’onere di provare il contrario, adducendo, ad esempio, elementi idonei a sostenere l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al comportamento infedele tenuto.
Tribunale Salerno sez. I, 09/01/2020, n.84
Violazione dell’obbligo di fedeltà
L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, semprechè non si constati, attraverso la valutazione del comportamento dei coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Corte appello Milano, 06/05/2019, n.1965
Infedeltà coniugale e tutela aquiliana
La violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale comporta il risarcimento del danno non patrimoniale solo ove la condizione di afflizione indotta nell’altro coniuge superi la soglia della normale tollerabilità e si traduca, per le modalità con le quali è realizzata, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, come quello alla salute o all’onore o alla dignità personale.
Cassazione civile sez. III, 07/03/2019, n.6598
Nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale
In materia di separazione e divorzio, l’esistenza di una stabile relazione extraconiugale rappresenta una violazione particolarmente grave dell’obbligo della fedeltà coniugale, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, causa della separazione personale dei coniugi e, dunque, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile. A ogni modo, l’addebito è escluso se si accerti la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
Nel caso di specie, a fronte della accertata stabile relazione extraconiugale del marito, il Tribunale ne ha addebitato la responsabilità, in quanto quest’ultimo si era limitato solo a sottolineare una presunta insormontabile incompatibilità di carattere tra i coniugi, di per sé sola non sufficiente a fondare l’intollerabilità della convivenza.
Tribunale Caltagirone, 24/02/2018, n.140
L’infedeltà coniugale
L’infedeltà coniugale costituisce una violazione degli obblighi matrimoniali particolarmente grave, potenzialmente idonea a porsi anche quale unica motivazione della separazione. (Nella specie – ha osservato la Suprema corte – non è stato provato che l’infedeltà attribuita alla moglie si ponga in rapporto di causalità con le crisi del rapporto di coppia e non sia intervenuta in una fase in cui tra i coniugi vi era una convivenza ormai puramente formale.
La Corte d’appello, prosegue la Suprema corte, ha – altresì – evidenziato che le proprie riflessioni avevano trovato ulteriore riscontro nella confidenza fatta dalla moglie alla sua psicoterapeuta, circa l’assenza di rapporti intimi con il marito già da alcuni anni prima della separazione. Queste valutazioni, congruamente motivate e non tutte specificamente contestate, ha concluso la Suprema corte, non sono suscettibili di riesame, in sede di giudizio di legittimità).
Cassazione civile sez. I, 20/06/2017, n.15200
L’addebito della separazione per infedeltà coniugale
Deve essere confermata la decisione di addebito della separazione in capo al marito per violazione dell’obbligo di fedeltà conseguente ad una relazione extraconiugale di dominio pubblico; perché se è vero che la violazione dell’obbligo di fedeltà non può considerarsi di per sé sola causa dell’intollerabilità della convivenza, nella specie era emerso la sussistenza del nesso di causalità tra infedeltà e rottura del matrimonio.
Cassazione civile sez. VI, 24/08/2016, n.17317
Degradazione del rapporto coniugale
Deve essere confermata la decisione dei giudici del merito relativamente al diniego della circostanza attenuante di aver agito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui (infedeltà coniugale della vittima) con la ragione che la degradazione del rapporto coniugale durava da parecchio tempo, e non poteva essere attribuita in maniera netta al comportamento infedele della vittima; l’imputato, condannato per l’omicidio della moglie, da diverso tempo aveva assunto atteggiamenti prevaricatori e violenti nei confronti della donna, la quale da alcune settimane si era allontanata dalla casa coniugale.
Cassazione penale sez. I, 14/11/2013, n.50639
Offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge
La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione, ai sensi dell’art. 151 c.c., non solo quando si sostanzi in un adulterio ma anche quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge (confermata, nella specie, la decisione dei giudici del merito che avevano escluso che lo scambio interpersonale tra la moglie ed un soggetto terzo avesse potuto assumere i concreti connotati di una relazione sentimentale adulterina e, comunque, quelli di una relazione atta a suscitare plausibili sospetti di infedeltà coniugale traducibili o tradottisi in contegni offensivi per la dignità e l’onore dell’altro coniuge, atteso che il legame intercorso si era rivelato platonico, essenzialmente concretatosi in contatti telefonici o via internet, data anche la notevole distanza tra i luoghi di rispettiva residenza, e non connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale, con condivisione e ricambio di lei dell’eventuale infatuazione di lui).
Cassazione civile sez. I, 12/04/2013, n.8929
Infedeltà coniugale: revocazione della donazione per ingratitudine
Non è censurabile la sentenza del giudice di merito che, ai fini della revocazione della donazione per ingratitudine, qualifica “ingiuria grave” la mancanza di solidarietà e di riconoscenza nonché il malanimo insito nel complessivo comportamento di infedeltà della moglie.
Cassazione civile sez. II, 04/11/2011, n.22936
Infedeltà coniugale e investigatore privato
Non integra gli estremi dell’art. 498 c.p. né di altro illecito, penale o amministrativo, la condotta dell’imputato consistita nel mostrare una placca con la dicitura “investigatore privato”, contestata come segno distintivo da investigatore privato, per il quale è richiesta specifica abilitazione dello stato, innanzitutto perché la fattispecie di cui all’art. 98 comma 1 c.p. non è più un reato bensì un illecito amministrativo, in secondo luogo perché non esiste un segno distintivo “ufficiale” degli investigatori privati.
(Nella specie l’imputato era entrato in un settore riservato dello Stadio di calcio per assistere alla partita dopo avere sostenuto allo steward di essere delle forze di polizia, ma, interpellato da parte del servizio di vigilanza in sede di controllo del biglietto prima e dei carabinieri poi, aveva dichiarato a questi ultimi che stava lavorando come investigatore privato ad un caso di infedeltà coniugale e a consegnare un portafogli al cui interno era la placca con la dicitura “investigatore privato”).
Tribunale La Spezia, 24/11/2010, n.1069
Violazione dei doveri giuridici scaturenti dal vincolo matrimoniale
Ritenuto che i doveri coniugali ex art. 143 c.c. hanno contenuto e rilevanza strettamente giuridici, oltre che morali; ritenuto che l’infedeltà coniugale consumata qualora non preesista, tra le parti, una irrimediabile situazione di crisi affettiva e spirituale, costituisce grave violazione dei doveri giuridici scaturenti dal vincolo matrimoniale, violazione che è fonte di responsabilità risarcitoria aquiliana del coniuge infedele in quanto – anche per le modalità, la frequenza e le circostanze dell’adulterio – quest’ultimo ha certamente leso diritti fondamentali ed inviolabili della persona anche costituzionalmente rilevanti (l’onere e la dignità); ritenuto che le sanzioni collegate all’addebitabilità della separazione (e del divorzio) possono essere, non di rado, inapplicabili, o inutili, o dannose per il coniuge offeso, ed, in ogni caso, hanno una funzione meramente punitiva e non satisfattoria, il coniuge infedele deve risarcire, ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 2043 e 2059 (art. 2 e 29 cost.), il coniuge tradito con l’esborso di una somma di denaro, quantificabile anche in via presuntiva, per i danni a quest’ultimo, senza alcun dubbio, arrecati con la propria condotta gravemente illecita.
Tribunale Prato, 18/02/2010
L’addebito della separazione e l’affidamento condiviso della prole
L’addebito della separazione per infedeltà coniugale non osta di per sè al regime di affidamento condiviso della prole, avuto riguardo, da un lato, all’interesse della prole stessa e, dall’altro, al fatto che l’addebito non implica senz’altro un giudizio negativo sulla figura genitoriale (Nel caso di specie, la separazione era stata addebitata alla moglie, a causa di una stabile relazione sentimentale con un altro uomo, dal quale aveva anche avuto un figlio. Tuttavia, poiché dall’istruttoria di causa era comunque emerso un buon rapporto madre-figlio, giacché quest’ultimo era ben accudito e non mostrava disagio psicologico alcuno, il Giudice – in applicazione del principio di cui in massima – nel dichiarare l’addebito della separazione alla moglie ha disposto l’affidamento condiviso della prole con collocazione presso la madre).
Tribunale Modena sez. II, 20/02/2008, n.281
L’infedeltà coniugale dalla consorte e test del Dna
Il marito, avuta notizia dell’infedeltà coniugale dalla consorte, non può utilizzare l’esito della prova ematologia per disconoscere la paternità di quelli che credeva i suoi figli. Prima deve dimostrare che la donna lo ha tradito, perché il test sul DNA non vale come “implicita prova dell’adulterio”.
Cassazione civile sez. I, 22/10/2002, n.14887
La circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale
In tema di circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62 n. 1 c.p.), va escluso che un omicidio, commesso per salvaguardare l’onore pretesamente offeso dalla relazione amorosa con il proprio coniuge, e per ricostituire l’unità familiare, trovi approvazione nella coscienza etica collettiva: la gelosia e la vendetta, dettate da un malinteso senso dell’orgoglio maschile colpito dall’infedeltà coniugale, costituiscono sempre passioni morali riprovevoli mai suscettibili di valutazione etica positiva.
Cassazione penale sez. I, 14/10/1996, n.9254
L’inconciliabilità della prosecuzione del vincolo coniugale
La causa d’onore non può identificarsi con un malinteso senso dell’orgoglio maschile che è incompatibile con i valori sociali che si sono consolidati nella moderna società in tema di infedeltà coniugale. Ed infatti gli istituti apprestati a tutela dell’inconciliabilità della prosecuzione del vincolo coniugale nell’ipotesi di infedeltà non permettono di affermare che sia configurabile l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale nella condotta di chi uccide l’amante della propria moglie per ricostituire l’unità familiare.
Cassazione penale sez. I, 01/03/1994, n.4439
Fatto ingiusto per la morale della famiglia
In tema di provocazione, l’infedeltà coniugale costituisce “fatto ingiusto” per la morale della famiglia e per la civile convivenza.
Cassazione penale sez. I, 04/12/1992
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Attraverso la ricerca approfondita di fonti di prova l’Investigatore Privato rappresenta lo strumento essenziale e strategico per la raccolta di materiale giuridicamente valido, da rappresentare in sede di giudizio; Prerogativa, questa, che solo delle agenzie in possesso di licenza Prefettizia, come la nostra, possono offrire.Ilary Blasi e l'«investigatore privato» per seguire Francesco Totti
Secondo le ultime ricostruzioni, la conduttrice avrebbe scoperto che la terzogenita Isabel giocava il pomeriggio con due nuovi amichetti, «i figli di Noemi Bocchi». Così si sarebbe rivolta ad un professionista per vederci chiaro: restano però tanti condizionali
Non si ferma la tempesta di indiscrezioni su Ilary Blasi e Francesco Totti. L’ultima presunta verità arriva dal settimanale Chi, secondo cui la conduttrice si sarebbe rivolta ad un investigatore privato per seguire l’ex capitano della Roma. Stando alla nuova ed esclusiva ricostruzione, «Ilary avrebbe scoperto il tradimento del marito grazie a un dettaglio familiare». Che riguarderebbe la figlia Isabel.
La presentatrice, infatti, pare abbia saputo dall’investigatore privato, terzogenita aveva due nuovi amichetti con cui giocava il pomeriggio, «i figli di Noemi Bocchi». Così, per vederci chiaro, avrebbe contattato un detective privato,: si resta ovviamente nel regno dei condizionali, perché sul tema non ci sono né dichiarazioni dei diretti interessati né prove (pubbliche), ma l’affondo del magazine è deciso e dettagliato.
Sarebbe stato lo stesso Totti, infatti, a portare la figlia Isabel «con sé nel palazzo dove abitava la sua dama bionda, per sviare ogni sospetto»: ma, appunto, la verità sarebbe venuta presto a galla, portando ovviamente alla rottura. Si mormora pure che l’ex calciatore fosse «circondato dalle tentazioni» e che ricevesse sui social «alcuni messaggi da ammiratrici che tradivano una certa familiarità».
Tante ipotesi, così com’era una supposizione quella avanzata ieri dal portale di gossip secondo cui Totti e Noemi avevano già cominciato una presunta convivenza. Versione immediatamente smentita dal Corriere della Sera, che ha spiegato che l’ex Pupone «sta trascorrendo la sua prima estate da single di ritorno nella sua mega-villa da 25 stanze, all'Eur, insieme al primogenito Cristian».
Il fondatore dell’agenzia Max Maiellaro, con oltre 30 anni di esperienze maturate nella Polizia di Stato, si occupa personalmente delle indagini, coordinando il team di esperti con cui collabora.
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Professione Investigatore Privato; Detective Piruvato
Professione detective, come diventare investigatore privato
necessari per fornire consigli utili durante il tuo percorso lavorativo.
Se hai fiuto, intuito e passione per l’investigazione, il mestiere dell’investigatore privato o detective, per dirla all’inglese, fa al caso tuo. Le investigazioni sono un campo d’azione molto delicato, quindi è bene conoscere tutti i segreti che riguardano questo mestiere affascinante.
Come diventare investigatore privato: consigli pratici per aspiranti detective: La legislazione italiana in vigore descrive gli investigatori privati come coloro che possiedono una specifica licenza per poter svolgere questa attività. La loro figura è riconosciuta a livello nazionale, ed è soggetta a precise normative e leggi che ne regolamentano caratteristiche e competenze Art.134 Legge del TULPS.
Cenni di storia
All’inizio del XX secolo, le leggi che delimitavano la figura del detective erano le stesse poste a regolamentare gli istituti di vigilanza. Successivamente, nel 1926, vi fu una regolamentazione ancora più specifica che delineava le caratteristiche specifiche degli investigatori privati. Si gettarono così le basi per il concetto di “licenza”, ovvero di un documento formale appositamente rilasciato dalle prefetture necessario per poter esercitare questa professione.
A questa rudimentale legislazione si affiancarono, nel 1989, nuove disposizioni con il fine di regolamentare ancora di più questa attività. Le nuove leggi prevedevano come requisito il possesso di specifiche abilità professionali, ulteriormente definite dai decreti del 2010 e 2011. L’investigatore privato diventa quindi una figura professionale a tutti gli effetti, regolarmente normata ai sensi di legge.
La classificazione odierna riguardante la figura dell’investigatore privato
Con gli ultimi decreti si è voluto suddividere la professione di investigatore privato secondo precisi crismi, stabilendo requisiti e funzioni di ciascuna categoria. In particolare, esistono quattro differenti tipologie di investigatori privati:
* Investigatori titolari: in possesso di licenza, gli investigatori privati titolari possono esercitare la professione in maniera autonoma e aprire la loro agenzia investigativa con la possibilità di assumere investigatori autorizzati dipendenti.
* Investigatori dipendenti: non possono esercitare in maniera indipendente, ma possono essere assunti e collaborare con un investigatore privato titolare o con una agenzia investigativa riconosciuta.
* Informatori commerciali titolari: si occupano di investigazione relativamente agli ambiti aziendale e commerciale. Possono investigare sui comportamenti di alcuni dipendenti, proteggere brevetti e copyright, e investigare perdite di denaro inusuali. Possono esercitare la professione autonomamente o aprire la loro agenzia assumendo informatori dipendenti.
* Informatori commerciali dipendenti: non possono esercitare in maniera indipendente, ma possono prestare i loro servigi presso una agenzia riconosciuta o presso un informatore commerciale indipendente.
Chi fa cosa? La distinzione tra investigatori privati e informatori commerciali
Se hai deciso di intraprendere questa professione, la prima cosa che dovrai decidere è che tipo di figura investigativa vorrai diventare. Da questa scelta dipenderanno i requisiti necessari per poter svolgere la tua attività entro i limiti imposti dalla legge. Per renderti più semplice la decisione, puoi leggere le righe che seguono.
La differenza tra investigatori privati e informatori commerciali è netta. Se i primi si occupano principalmente della sfera privata e della vita civile, gli informatori commerciali sono specializzati nel lavorare con aziende e imprese, che possono richiedere i loro servigi in una serie di circostanze. Gli informatori si occupano di raccogliere ed organizzare dati, di verificare la veridicità dei bilanci, di investigare i debitori, e di altre attività che aiutano i proprietari di azienda nella gestione delle loro imprese.
Le mansioni degli investigatori e degli informatori
In maniera ancora più specifica, vediamo quali sono le varie mansioni svolte dagli investigatori privati e dagli informatori commerciali.
* Nel privato: si tratta di ottenere e organizzare le informazioni per conto di cittadini privati, ad esempio in funzione di una loro tutela legale. Possono essere informazioni che riguardano la sfera matrimoniale e familiare, ma anche patrimoniale e riguardanti l’eredità. Ancora, possono essere indagini volte a scovare indizi e prove da utilizzarsi nel corso di una disputa legale.
* Per le aziende: si tratta di collaborare con entità e società pubbliche e private con il fine di raccogliere informazioni che possano rendersi utili per tutelare i diritti, solitamente in sede legale. Si tratta spesso di casi in cui le aziende vogliono tutelare i dipartimenti di ricerca e sviluppo, i brevetti, ed altri beni definiti immateriali. A volte si indaga la fedeltà e la correttezza dei lavoratori dipendenti per evitare casi di fuga di informazioni sensibili.
* Per i bilanci: gli imprenditori possono aver bisogno di indagare su mancanze a livello contabile, sparizioni e differenze negli inventari, o anche semplicemente di controllare le eventualità di taccheggio (furto in negozio).
* Per la raccolta di informazioni commerciali: gli investigatori collaborano con enti privati (ma anche pubblici) per raccogliere ed analizzare dati di tipo industriale, economico, produttivo e finanziario, sempre rispettando le normative sulla privacy vigenti.
Gli investigatori privati o gli informatori commerciali ottengono questi dati attraverso una serie di attività normate ai sensi di legge, e quindi autorizzate. Si tratta degli appostamenti, dei pedinamenti, della documentazione audio e video reperita, ma anche delle informazioni ottenute con la localizzazione satellitare.
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* Scienze investigative: sbocchi lavorativi e opportunità
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Requisiti relativi agli investigatori e informatori commerciali
Esistono specifici requisiti per poter esercitare queste professioni, stabiliti ai sensi di legge. Vediamo quindi quali requisiti devi avere per intraprendere questa carriera.
Investigatori privati titolari
Come abbiamo detto in precedenza, gli investigatori privati titolari operano nel campo del privato e possono farlo in maniera indipendente. Per poterlo fare, devono dimostrare di:
* Essere in possesso di una delle seguenti lauree triennali: Psicologia Forense, Scienze Politiche, Scienze dell’Investigazione, Economia; alternativamente devono avere una laurea in Giurisprudenza.
* Aver praticato un tirocinio di almeno 3 anni come lavoratori dipendenti presso un investigatore privato autorizzato da un minimo di 5 anni, al termine del quale l’investigatore autorizzato rilascerà un certificato di esito positivo.
* Aver frequentato con successo i corsi organizzati da Università e centri di formazione riconosciuti dal Ministero dell’Interno.
* Oppure: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
Investigatori privati dipendenti
Ecco invece i requisiti per gli investigatori che vogliono esercitare la professione come dipendenti:
* Diploma di scuola media superiore.
* Tirocinio di 3 anni e almeno 80 ore mensili presso un investigatore privato titolare che abbia esercitato la professione ai sensi di legge per almeno 5 anni.
* Aver preso parte a corsi specifici presso Università o altri centri di formazione professionale certificati.
* In alternativa: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
Informatori commerciali titolari
Per questa particolare specializzazione i prerequisiti sono simili a quelli delle voci precedenti. È quindi necessario:
* Aver conseguito una laurea triennale in Psicologia Forense, Scienze Politiche, Economia, Scienze dell’Investigazione o Scienze Politiche.
* In alternativa: essere stati titolari di impresa individuale o amministratori di società per un minimo di 3 anni e da non più di 5 anni.
Informatori dipendenti
Per gli informatori dipendenti, questi sono i requisiti:
* Aver conseguito un diploma di scuola media superiore.
* Aver svolto una attività di praticantato per almeno 3 anni presso un informatore commerciale con almeno 5 anni di servizio autorizzato.
* Aver partecipato a corsi specifici presso Università o centri di formazione riconosciuti.
* In alternativa: aver lavorato come investigatori presso le forze di polizia per almeno 5 anni e aver lasciato senza demerito il periodo di servizio da un massimo di 4 anni.
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Come ottenere la licenza di esercizio
Una volta soddisfatti i requisiti stabiliti nei paragrafi precedenti, se vuoi diventare investigatore o informatore autonomo dovrai rivolgerti ad una prefettura per conseguire la tua licenza.
Richiedere e rinnovare la licenza
Per i primi 5 anni dal suo conseguimento, il rinnovo della licenza sarà effettuabile su base triennale e dipenderà dall’avvenuta frequentazione di corsi di perfezionamento e aggiornamento. La licenza degli investigatori dipendenti è invece subordinata a quella del titolare dell’istituto.
Da presentarsi alla prefettura al momento di richiedere la licenza, devi redigere un progetto tecnico che includa i seguenti dettagli:
* Sede e sedi satellite (non è possibile stabilire la sede presso il proprio domicilio o presso uno studio legale già esistente).
* Personale impiegato.
* Attestati circa i requisiti.
* Deposito o cauzione (in caso di investigazioni il deposito ammonta a 20.000 euro; se si tratta di informazioni commerciali il deposito raddoppia e corrisponde a 40.000 euro; per le sedi secondarie il deposito è di 10.000 euro; si aggiungono 5.000 euro per ogni voce o tipologia di servizio scelta).
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così i datori di lavoro potranno trovarti
Ultime considerazioni per esercitare come investigatori privati
Ottenuta la licenza di esercizio, assicurati che non ti venga revocata seguendo questi semplici passaggi:
Esponi il tuo tariffario bene in vista
Ricorda che devi obbligatoriamente esporre in maniera permanente il tariffario relativo a tutte le prestazioni che svolgi. Non potrai svolgere mansioni ulteriori rispetto a quelle indicate nel tariffario o ricevere compensi più alti, e non potrai inoltre ricevere pagamenti da persone sprovviste di documenti identificativi.
Mantieni un registro di polizia
Si tratta di un documento che riporta i dati dei tuoi clienti e dei soggetti delle indagini. Devi conservare tale registro per almeno 5 anni e devi mostrarlo alle forze dell’ordine ogni qual volta ti venga richiesto.
Munisciti di tesserino identificativo
Dovrai munirti di tesserino identificativo elettronico, ovvero un chip contenente tutti i tuoi dati identificativi secondo il modello stabilito dal Ministero dell’Interno.
Ora che sai come diventare un investigatore privato, quale ruolo svolge, in che contesto opera e quali competenze deve possedere questa figura professionale, puoi decidere se questa professione fa per te.
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IDFOX offre un’ampia varietà di servizi che vanno dai più semplici a quelli estremamente più complessi e il prezzo di conseguenza tende a mutare. Ad esempio, il costo di un servizio di pedinamento di un coniuge che viene sospettato di tradimento, non sarà lo stesso di un’ ispezione dettagliata in ambito aziendale volta alla ricerca di frodi.
Possiamo dunque considerare ogni investigazione come una sorta di abito cucito su misura, per cui non esiste un costo standard in quanto le variabili di ogni servizio sono innumerevoli. Altro dato che incide sul costo è l’orario in cui il servizio verrà svolto, ad esempio, se per l’intera giornata o diversi giorni, se in orari serali, notturni o di giorno.
Indagini private per infedeltà coniugale, separazioni, affido, stalking, monitoraggio giovani, indagini difensive; indagini commerciali ed economiche bancarie, antifrode sinistri ed indagini informatiche.
Quindi, il primo passo per assumere un investigatore privato è aver chiaro il motivo per cui la si sta contattando.
I reati contro le compagnie assicurative sono una piaga sociale: l’inscenare dei finti furti/sinistri e delle truffe, per intascare facili risarcimenti è in perenne aumento.
Con le nostre indagini antitruffe assicurative (art. 642 c.p.) smascheriamo chi, con frodi o raggiri, consegue ingiusti profitti a danno delle compagnie assicurative e degli istituti finanziari.
Grazie alla nostra esperienza investigativa ultra trentennale, siamo in grado di fornire un valido supporto alle Compagnie Assicurative attraverso indagini ad hoc per accertare l’esatta dinamica dei sinistri avvenuti, svolta attraverso l’acquisizione degli atti presso le autorità eventualmente intervenute, la ricerca dei testimoni e verifica delle dichiarazioni rese dalle parti interessate, ricostruzione cinematica presso il luogo del sinistro corredato di rilievi fotografici, nonchè accertamenti su mezzi e/o soggetti, attivando anche osservazioni statico-dinamiche su eventuali lesionati, oppure scovare presunti soggetti deceduti per incassare polizze milionarie.
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Indagini Informatiche forensi; L’avanzamento sempre più rapido della tecnologia e di Internet ha stravolto la nostra vita; assieme alla profonda digitalizzazione dei sistemi di gestione ha portato, purtroppo, anche alla diffusione dei cosiddetti “crimini informatici”.
Per combattere questi crimini si sono sviluppate, in parallelo, svariate forme di prevenzione e di tutela, tra le quali emerge la figura del detective privato informatico.
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Imputati per sequestro, la prova è “evidente”: ma per la legge Cartabia non sono più punibili. E il pm deve chiedere di fermare il processo
Due cittadini albanesi con precedenti sono a processo a Savona per aver rapito, legato e imbavagliato un 22enne che terrorizzavano con continue richieste di denaro. Ma la vittima ha ritirato la querela e l'accusa è finita in fumo grazie alla nuova legge, nonostante la prova fosse già stata ritenuta solidissima da un gip. Un altro caso-limite che mostra le storture della riforma del processo penale firmata dell'ex Guardasigilli.
Sono a processo per aver rapito, legato e imbavagliato un 22enne, costringendolo a salire in macchina e chiudendolo in un appartamento per diverse ore. Ma per la riforma Cartabia il loro comportamento non costituisce più un reato punibile. E perciò due imputati con precedenti, che hanno dimostrato, secondo l’accusa, “una sorprendente pervicacia nelle condotte criminose“, dovranno essere prosciolti dall’accusa di sequestro di persona, e la custodia in carcere disposta nei loro confronti per quel reato dovrà decadere.
Tra le altre cose, infatti, la legge Cartabia trasforma una serie di reati da “perseguibili d’ufficio” a “perseguibili a querela“, cioè solo su richiesta formale della vittima.
Non si tratta di fattispecie di poco conto: ci sono i furti aggravati, le lesioni personali stradali gravi o gravissime, le truffe, le violenze private e, appunto, i sequestri di persona non aggravati.
A Milano sono stati scarcerati Simba La Rue e altri tre trapper arrestati per il sequestro del rivale Baby Touché.
Un regolamento di conti culminato con il pestaggio e il rapimento su un’auto per due ore, lasso di tempo in cui la vittima è stata ripresa con i telefonini con il volto tumefatto, derisa ed esposta al ludibrio dei social. Quei fatti, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia, non sono più perseguibili d’ufficio. Occorre una querela di parte, che la vittima ha già annunciato di non voler fare. Dunque, tutti liberi.
L’elenco di illeciti destinati a finire nella tagliola della riforma Cartabia è lungo. L’elenco comprende: le lesioni personali colpose stradale gravi e gravissime, e le lesioni personali dolose; la violenza privata; la violazione di domicilio; la truffa; il furto semplice e (con alcune eccezioni) quello aggravato; il sequestro di persona. Tra tutti i reati, quest’ultimo è quello che fa più discutere, non sempre le vittime sono in grado di denunciare i loro carnefici.
I pm hanno dato mandato alla polizia giudiziaria di cercare le vittime dei reati e di avvisarle della necessità di presentare una querela il prima possibile. Ma spesso è tutt’altro che facile. Non solo perché il lavoro, specie nelle grandi città, si preannuncia immane. Un paradosso, se si pensa che l’intento del governo Draghi era di deflazionare i procedimenti.
Per il tribunale di Napoli, decisive le prove prodotte dall'investigatore privato nell'ottenere la revoca dell'assegno di mantenimento alla ex
Assegno di mantenimento e detective
In sede di divorzio un uomo ha chiesto ad un investigatore privato di accertare la capacità reddituale della ex moglie al fine di rideterminare l'assegno di mantenimento.
Nel corso dell'attività investigativa il detective privato ha rilevato che la donna presta attività di collaboratrice domestica, circostanza poi confermata nel corso della sua testimonianza.
L'esito dell'accertamento investigativo ha consentito di escludere la componente assistenziale dell'assegno che, insieme a quella perequativa-compensativa, è finalizzata a ristabilire una situazione di equilibrio fra le parti.
Stop all'assegno di mantenimento: la decisione del tribunale di Napoli
Secondo il Giudice (Tribunale Napoli, 1° sez. civ., sentenza n. 6249 del 21.6.2022) non ci sono i presupposti per un assegno assistenziale e perequativo-compensativo in quanto l'investigazione privata ha dimostrato la capacità della donna di produrre reddito, e perché la stessa ha percepito un assegno di mantenimento per ben undici anni.
Questa ultima circostanza è stata ritenuta sufficiente per ristorarla dei sacrifici compiuti nel corso del matrimonio.
La donna, inoltre, in considerazione della giovane età (44 anni) ha capacità lavorative, anche perché la separazione è avvenuta quando aveva circa 30 anni e ben poteva già da allora intraprendere una attività maggiormente remunerativa di quella attuale.
Oltretutto la stessa non ha dimostrato di avere delle capacità e degli obiettivi che ha accantonato durante il matrimonio per dedicarsi interamente alla famiglia.
Pertanto, il mantenimento percepito durante la separazione è stato ritenuto più che sufficiente a "risarcirla" degli eventuali sacrifici e delle rinunce (oltretutto non dimostrate) effettuate nel corso della vita matrimoniale.
Il ricorso ex art. 156 co. 6 c.c. presuppone l'inadempimento del pagamento del mantenimento dovuto dal coniuge obbligato e può essere intrapreso per ordinare al terzo, che deve somme all'obbligato, di pagare al coniuge destinatario
Separazione e assegno di mantenimento pagato dal terzo
L'Inps paghi alla moglie il mantenimento dovuto dal marito in base a quanto disposto dalla sentenza di separazione. Il ricorso ex art. 156 comma 6 c.c. è infatti finalizzato a garantire il diritto di credito del coniuge avente diritto al mantenimento. In caso d'inadempimento del coniuge obbligato il giudice può infatti ordinare a terzi, che devono somme periodiche all'obbligato, come il datore di lavoro, di pagare direttamente al beneficiario l'importo stabilito dalla sentenza di separazione. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano con la sentenza n. 11239 del 9 giugno 2022.
Ricorso ex art. 156 c.c. comma 6 per il mantenimento
Una moglie separata ricorre al Tribunale di Milano chiedendo la disposizione del pagamento in suo favore da parte dell'Inps, della somma mensile disposta dal giudice a titolo di contributo al mantenimento conseguente alla separazione personale dal marito. Costui infatti fino a quel momento non ha mai provveduto al versamento delle somme dovute. Il ricorso avviato dalla donna è quello previsto dall'articolo 156 comma 6 del codice civile il quale dispone che: "In caso di inadempienza, su richiesta dell'avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte di beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto."
Paghi l'Inps il mantenimento alla moglie separata
Il Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta della ricorrente, ordina all'Inps di pagare direttamente alla stessa, precisando che il ricorso ex articolo 156 comma 6 ha una funzione di garanzia rafforzata del credito, ma la decisione giudiziale dello stesso non risolve una controversia sull'esistenza del diritto.
Il Tribunale in questi ricorsi è tenuto solo a verificare, data l'obbligazione disposta da un provvedimento giudiziale a carico di uno dei coniugi, l'esistenza dell'inadempimento, che è il presupposto previsto dall'articolo 156 per disporre il pagamento diretto all'avente diritto. È infatti onere del convenuto obbligato provare il fatto estintivo della pretesa altrui ovvero l'avvenuto adempimento.
Nel caso di specie però è vero il contrario, ossia è pacifico l'inadempimento del convenuto all'obbligazione di mantenimento per la moglie, che ha provato la fonte del suo diritto e ha anche allegato il perdurante inadempimento del coniuge.
Il coniuge obbligato, al contrario, benché a conoscenza del giudizio presente, non ha dimostrato di aver assolto all'onere a suo carico, provando l'avvenuto adempimento. All'Inps quindi si ordina di pagare alla ricorrente la somma mensile di 350,00 euro a titolo di contributo al mantenimento come stabilito dalla sentenza di separazione.
Con la promessa di matrimonio, ex artt. 79-81 c.c., i nubendi manifestano la volontà di contrarre matrimonio anche se tale dichiarazione non li obbliga alla celebrazione
Promessa di matrimonio nel codice civile
La promessa di matrimonio, anche se ha origini arcaiche, è disciplinata dal codice civile agli articoli 79, 80 e 81 perché in base a quanto sancito dall'art. 29 della Costituzione, la famiglia, per il nostro ordinamento, si fonda sul matrimonio. Questi tre articoli nel tempo non hanno subito modifiche, neppure quando è intervenuta la Riforma del Diritto di Famiglia nel 1975. La formulazione elastica delle disposizioni ne ha permesso infatti l'applicabilità nonostante il mutamento dei costumi sociali.
Il codice civile, per quanto riguarda la promessa di matrimonio, si occupa di disciplinarne le conseguenze giuridiche, precisando all'art. 79 che "la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non adempimento".
Dalla lettera della norma si evince in sostanza che la dichiarazione contenuta nella promessa non può avere carattere vincolante, poiché la libertà matrimoniale (scegliere di sposarsi o meno) rappresenta nel nostro ordinamento un diritto fondamentale della persona, quindi la volontà di contrarre matrimonio deve rimanere libera, spontanea e non coartata.
Da qui la previsione di una disciplina specifica relativa alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto della promessa, ovvero dalla mancata celebrazione delle nozze.
Tipologie di promessa di matrimonio
Si possono rintracciare due tipologie di promessa matrimoniale, la promessa di matrimonio semplice e la promessa solenne, cui sono legati effetti e conseguenze differenti nel caso in cui alle stesse non seguano le nozze.
Promessa di matrimonio semplice
La promessa semplice (cd. fidanzamento ufficiale) è un atto, anche unilaterale, privo di particolari forme o requisiti con il quale si manifesta la volontà di unirsi in matrimonio. Questo tipo di impegno si qualifica pertanto come mero fatto sociale dal quale sorge in capo ai futuri coniugi unicamente un dovere di tipo morale a contrarre matrimonio.
Promessa di matrimonio solenne
L'art. 81 del codice civile disciplina invece la promessa solenne di matrimonio che può effettuarsi in due modalità:
1) con un impegno assunto vicendevolmente da persone di maggiore età, o dal minore ammesso a contrarre matrimonio, espresso in forma scritta (atto pubblico o scrittura privata);
2) con la richiesta di pubblicazione di matrimonio secondo le modalità previste dall'art. 93 c.c.
Promessa di matrimonio in comune o in chiesa
La promessa di matrimonio, da non confondere con le promesse che gli sposi si scambiano durante il rito nunziale, può essere fatta in comune o in Chiesa. Con la promessa di matrimonio si rende ufficiale il passaggio dallo stato di fidanzati a quello di promessi sposi.
Promessa di matrimonio in comune: quali documenti?
Il luogo deputato a ricevere la promessa di matrimonio è il Comune e precisamente l'Ufficio dello Stato civile o l'Ufficio Matrimoni. Per procedere con la promessa di matrimonio è necessario predisporre prima tutta la documentazione necessaria:
* documento d'identità dei promessi sposi;
* modulo di richiesta per la pubblicazione di entrambi;
* nulla osta al matrimonio se i promessi sposi sono cittadini stranieri;
* la marca da bollo per le pubblicazioni (e i prossimi alle nozze sono stranieri occorre la marca da bollo per la legalizzazione, un'altra ed eventuale marca da bollo può essere necessaria se la richiesta di matrimonio viene rivolta a un altro Comune).
Attenzione, perché se uno o entrambi gli sposi contraggono seconde nozze occorre produrre anche la copia integrale dell'atto di matrimonio precedente con tanto di annotazione della sentenza di scioglimento di matrimonio e della sentenza e la copia integrale dell'atto di matrimonio precedente, con l'annotazione a margine della sentenza della Sacra Rota se il matrimonio religioso precedente è stato annullato.
Attenzione, non è necessario che siano presenti entrambi, se uno dei due si trova impossibilitato a presenziare, può conferire delega all'altro, allegando alla delega il proprio documento d'identità.
Verificata la documentazione l'ufficiale dello stato civile dà lettura degli articoli, fa sottoscrivere l'atto, dopodiché si procede con le pubblicazioni, che possono essere effettuate in due Comuni diversi se i futuri sposi sono originari di due entri comunali differenti.
Trascorso il tempo delle pubblicazioni, se nessuno si oppone alle nozze, gli sposi possono celebrarle con rito civile in Comune o in Chiesa. Anche in questo caso seguono le pubblicazioni. Concluse il periodo delle stesse viene rilasciata l'attestazione di avvenuta pubblicazione.
Promessa di matrimonio in Chiesa
La promessa di matrimonio in Chiesa si distingue da quella in Comune perché gli sposi in questo caso devono produrre il certificato che attesta la frequentazione e la validità del corso prematrimoniale, il certificato della compiuta comunione, il certificato della cresima e il documento con cui si manifesta il consenso religioso al matrimonio, che viene rilasciato all'esito del "processetto matrimoniale" che consiste in una serie di domande con cui si accerta la serietà delle intenzioni dei futuri sposi.
Quanto tempo prima va fatta la promessa di matrimonio
La promessa di matrimonio va eseguita preferibilmente due mesi prima delle nozze, precisando che si tratta di una formalità che, a differenza delle nozze vere e proprie, non richiede la presenza di testimoni. Tempi più lunghi, in genere attorno ai sei mesi, sono invece necessari se gli sposi sono stranieri. Possono infatti volerci tempi più lunghi per chiedere e ottenere i documenti necessari alle nozze.
Effetti e conseguenze della promessa di matrimonio
Pur non obbligando i nubendi a contrarre matrimonio, la scelta dell'uno o dell'altro tipo di promessa non è indifferente dal punto di vista giuridico patrimoniale.
Restituzione dei doni
Se alla promessa semplice non fa seguito il matrimonio, il codice civile all'art. 80 prevede che il promittente possa chiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa, proponendo domanda entro un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio o della morte di uno dei promittenti.
I doni da restituirsi sono quelle attribuzioni a titolo gratuito, valide ed efficaci, evidentemente giustificate dal fidanzamento/futuro matrimonio (es. anello di fidanzamento).
I doni sono vere e proprie donazioni
Doni che, come precisato dalla Cassazione n. 29980/2021: "non sono equiparabili né alle liberalità in occasione di servizi, né alle donazioni fatte in segno tangibile di speciale riconoscenza per i servizi resi in precedenza dal donatario, né alle liberalità d'uso, ma costituiscono, appunto, vere e proprie donazioni, come tali soggette ai requisiti di sostanza e di forma previsti dal codice (Cass. n. 1260-94). Fermo restando, naturalmente, che la eventuale modicità del donativo, da apprezzare oggettivamente in relazione alla capacità economica del donante (v. pure Cass. n. 7913-01), fa sì che, in taluni specifici casi, il trasferimento possa perfezionarsi legittimamente, tra soggetti capaci, in base alla mera traditio (...) Considerare infatti semplici liberalità d'uso le donazioni tra fidanzati comporterebbe - come già sottolineato - un'interpretazione estremamente riduttiva del diritto alla restituzione dei doni sancita dall'art. 80 cod. civ., a fronte invece dell'essere la ratio della restituzione non correlata, in detta norma, al semplice valore dei beni donati, quanto piuttosto alla eliminazione di tutti i possibili segni di un rapporto che non è giunto a compimento, e che è opportuno rimuovere per quanto possibile."
Risarcimento danni per spese sostenute
La promessa solenne ha conseguenze patrimoniali più ampie poiché, oltre all'obbligo di restituzione, obbliga chi rifiuta il matrimonio a risarcire all'altra parte il danno per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa della promessa (ad es. abito da sposa, bomboniere, preparativi per la cerimonia, ricevimento, anticipo sull'affitto della casa degli sposi, ecc.).
La domanda di risarcimento può essere proposta dalla parte che non ha impedito il matrimonio entro un anno dal giorno del rifiuto, che corrisponde al giorno in cui si ha la certezza del mancato rispetto della promessa fatta. Non spettano invece i danni non patrimoniali perché l'istituto non rientra tra i fatti illeciti contemplati dall'art. 2043 c.c.
Il giusto motivo che esclude il risarcimento
Il codice fa salva la possibilità della parte che rifiuta il matrimonio di provare che il suo comportamento sia legato ad un "giusto motivo" che esclude il risarcimento.
Si ritiene che i giusti motivi di rifiuto siano quelli previsti dall'art. 122, III comma, codice civile, che giustificano l'impugnazione del matrimonio, oppure generalmente i fatti che se fossero stati conosciuti o si fossero verificati prima della promessa avrebbero impedito all'interessato di prestarla (es. infedeltà, precedenti riprovevoli, tendenza al gioco o al bere, ecc.).
La giurisprudenza però ha individuato ulteriori giusti motivi in grado di escludere il risarcimento del danno, come una condizione lavorativa precaria, se la promessa è stata subordinata alla presenza di un lavoro stabile.
In caso di promessa a scopo di seduzione spetta il risarcimento?
Dubbio se il risarcimento spetti o meno quando la promessa di matrimonio viene fatta per poter la dedizione sessuale dell'altro. Per una parte della giurisprudenza il risarcimento spetta se la promessa è lo strumento di cui si avvale il promittente, che fin dall'inizio deve sapere che ha intenzione di mantenerla e se tra la promessa e la dedizione sessuale c'è nesso di causa.
Altra parte invece non ritiene che spetti il risarcimento in caso di promessa fatta solo a scopo seduttivo perchè in base ai valori socio-culturali della società moderna non si configura alcuna lesione del diritto all'integrità morale e alla libertà personale della persona sedotta. Non esistono infatti leggi che impongono la lealtà e la buona fede in relazione alle condotte sessuali. Nessuna norma nè precetto generale verrebbero violati, per cui nessuna responsabilità potrebbe condurre a un obbligo risarcitorio.
L'obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, previsto e disciplinato dall'art. 2105 c.c. contempla il divieto di non concorrenza e l'obbligo di riservatezza, che se non vengono rispettati hanno conseguenze civili, penali e disciplinari
Obbligo di fedeltà del lavoratore: in cosa consiste
La fedeltà del lavoratore dipendente, assieme alla diligenza contemplata dall'art. 2104 c.c. sono i principali obblighi a cui è tenuto il lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore. Il dovere di fedeli in particolare è disciplinato dall'articolo 2105 del codice civile. Detta norma dispone letteralmente chi: "Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio."
Dalla lettera della norma emerge che il dovere di fedeltà contempla al suo interno due obblighi negativi che devono essere rispettati da parte del prestatore di lavoro:
* il divieto di concorrenza;
* l'obbligo di riservatezza.
La Cassazione con la recente pronuncia n. 03543/2021 ha precisato che il dovere di fedeltà sancito dall'art. 2015 c.c. si traduce "nell'obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, senza necessità che esse siano idonee ad integrare una concorrenza sleale, a termini degli arti. 2592, 2593 e 2598 c.c. (Cass. 5 aprile 1990, n. 2822; Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239), riguardi la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass. 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. 29 agosto 2014, n. 18459)."
Limiti dell'obbligo di fedeltà
L'obbligo di fedeltà, ovviamente, non è assoluto. Come ribadito dalla recente Cassazione n. 17689/2022: "Si è infatti escluso che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento (Cass. n. 4125 del 2017; n. 6501 del 2013). Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato che solleciti l'intervento dell'autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti"
Una sentenza decisamene più risalente, la n. 13329/2001 sempre della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito invece che non è licenziabile il lavoratore part time con contratto di formazione che svolge anche attività lavorativa per conto di un'impresa concorrente. Per la Cassazione infatti la violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'at. 2105 c.c., sotto il profilo della trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l'imprenditore, si configura solo quando tale concorrenza si risolva in prestazioni non già meramente esecutive, bensì di carattere intellettuale di rilevante autonomia e discrezionalità. In altre parole, sono coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato ad essere in grado di porre in essere quella concorrenza più intensa, comunemente definita differenziale, che il legislatore ha inteso reprimere.
Conseguenze della violazione
Il mancato rispetto dell'obbligo di fedeltà da parte del prestatore di lavoro comporta ai sensi dell'articolo 2106 del codice civile applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione.
Alle sanzioni disciplinari si accompagnano anche conseguenze di natura penalistica. L'articolo 623 del codice penale punisce chiunque, venuto a conoscenza per ragione del suo stato ufficio o professione o arte di segreti di natura commerciale o di notizie destinate a rimanere segrete in relazione a scoperti o invenzioni scientifiche, le rivela o le impiega per il proprio per l'altrui profitto è punito con la reclusione fino a due anni. La stessa pena è applicata anche a chi acquisisce in modo abusivo segreti commerciali e poi gli rivela o l'impiega per il proprio o per l'altrui profitto. La pena viene aumentata se il reato viene commesso tramite strumenti informatici. trattasi di reato punibile a querela della persona offesa.
Giusta causa di licenziamento
Il mancato rispetto dell'obbligo di riservatezza e del divieto di concorrenza integra senza dubbio una giusta causa di licenziamento, in quanto, come ha avuto modo di chiarire la Cassazione nella sentenza n. 14319/2017: "La fiducia è un fattore che, per l'oggetto della prestazione del rapporto di lavoro e per la protrazione di quest'ultimo nel tempo, condiziona, con la propria esistenza, l'affermazione del rapporto stesso e, con la propria cessazione, la negazione (cfr. Cass. 23.6.1998 n. 6216). 8. E', pertanto, il fondamentale strumento di definizione di ciò che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto e può avere una intensità differenziata, rispetto alla funzione della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni, del grado di affidamento che queste esigono, nonché può essere modulata in funzione del fatto concreto (cfr. Cass. 2.2.1998 n. 1016), con riguardo alla sua portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze, ai motivi, alla natura e alla intensità dell'elemento psicologico. Assume, poi, determinante rilievo la potenzialità, che ha il fatto addebitato, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento (cfr. Cass. 27.11.1999 n. 13299)."
Obbligo di fedeltà dopo la fine del rapporto
L'obbligo di fedeltà può permanere anche dopo la fine del rapporto di lavoro. Le parti, ossia datore e lavoratore possono addivenire a un patto di non concorrenza ai sensi dell'art. 2125 c.c. che però è valido solo se rispetta i seguenti requisiti:
* deve risultare da un atto gente forma scritta;
* deve prevedere il riconoscimento di un corrispettivo in favore del prestatore di lavoro;
* il vincolo deve essere limitato alla durata di 5 anni se il dipendente è un dirigente, a tre anni negli altri casi e comunque se viene stabilita una durata maggiore di quelle appena indicate essa è ridotta automaticamente a dette durate.
L'argomento proposto dalla difesa del leale comportamento processuale del ricorrente è stato giudicato come elemento non significativo a fronte della condotta penalmente rilevante dell'imputato
Nessuna esimente dello stato d'ira per l'ex marito che su Facebook insulta l'ex moglie al termine di una separazione travagliata. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza 24614/2022 .
Nella vicenda, la corte d'appello di Catania ha confermato la decisione del tribunale della stessa città che, con rito abbreviato, aveva dichiarato colpevole di reato diffamazione aggravata un soggetto per aver offeso l'onore e la reputazione dell'ex moglie pubblicando frasi offensive nei confronti della stessa su un social network.
Avverso la sentenza il ricorso dell'imputato «aveva dedotto la violazione di legge e l'omessa motivazione in relazione agli articoli 595 e 599 al 2° comma del codice penale per non avere la Corte territoriale applicato l'esimente della reazione d'ira provocata da fatto ingiusto altrui».
A tal proposito la difesa riferiva che «la reazione dell'imputato benché non immediata è non di meno maturata nel contesto di un lavorante conflitto interpersonale e di un clima caratterizzato da contrasti minacce e vessazioni da parte dell'ex moglie che ostacolava soprattutto la frequentazione tra quest'ultimo e la prole e la famiglia stessa, che avrebbe provocato un persistente stato d'ira nel ricorrente».
Lo stesso aveva eccepito «la violazione di legge e omessa motivazioni in relazione all'articolo 62 bis del codice penale, nel momento in cui la Corte d'appello, «nel denegare l'applicazione delle attenuanti generiche, si sarebbe limitata a una motivazione puramente reiterativa degli argomenti già espressi sull'esimente prevista dall'articolo 599 del codice penale». Secondo la difesa invece l'asserita mancanza del fatto ingiusto non sarebbe sufficiente a giustificare anche la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche». La difesa a sostegno delle proprie tesi invoca il «leale comportamento processuale del ricorrente». Il terzo motivo eccepito riguarda la violazione di legge e l'omessa motivazione in relazione all'articolo 157 del codice penale con la richiesta al collegio di accertare se sia maturato il termine di prescrizione dei reati.
Nesso di causalità
Secondo la Corte di Cassazione sono non pertinenti rispetto alla «specificità del caso in esame i rilievi della difesa relativi alle tante sfaccettature che può della reazione in stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, rilevante fini della riconoscibilità dell'invocata esimente». Nonostante la copiosa giurisprudenza riportata in cui viene ribadito «come l'immediatezza della reazione debba essere intesa in senso relativo ed elastico non si attaglia all'argomento principale sviluppato nella motivazione della sentenza impugnata cioè il mancato riscontro di un comportamento ingiusto della persona offesa, saldamente ancorato alle risultante processuali».
In particolare per la Corte d'appello «un mero stato di contrasti o rancore tra le parti non integra una situazione per la quale possa ritenersi che il fatto ingiusto asseritamente patito dall'agente determini improvvisamente lo stato d'ira.
Nel rilevare la mancata prova del nesso di causalità tra reazione dell'imputato e asserito fatto ingiusto, i giudici di appello hanno fatto buon uso dell'orientamento della Corte di cassazione secondo cui «nel delitto di diffamazione ai fini della configurabilità dell'esimente di cui all'articolo 599 del codice penale, ancorché non rilevi la proporzione tra la reazione e il fatto in giusto altrui, occorre tutta via che sussista un nesso di causalità determinante tra il fatto provocante ed il fatto provocato, non essendo sufficiente il legame di mera occasionalità (sezione 5 numero 39508 dell'11/05/2012)».
Espressioni offensive con la consapevolezza di ledere la reputazione altrui
Per gli ermellini dunque, il profilo rilevante «è stato individuato dalla Corte territoriale nella volontà cosciente e libera di adoperare espressioni offensive con la consapevolezza della loro attitudine a ledere la reputazione altrui. Questo tipo di volontà così caratterizzata basta per integrare il dolore generico richiesto ai fini dell'integrazione del reato di diffamazione». Quindi in modo corretto la Corte territoriale ha ritenuto che, qualora tale volontà esista, nessuna rilevanza può attribuirsi affini e ai moventi dell'agente che possono al limite assumere rilievo solo per giustificare l'eventuale concessione di attenuanti o riduzione della pena. Attenuanti o riduzione della pena che la Corte ha ritenuto invece di escludere proprio in vista di quell'animus diffamanti che ha così chiaramente connotato la condotta dell'imputato». La sentenza perciò «ha coerentemente applicato il principio consolidato secondo il quale in tema di diffamazione per la sussistenza dell'elemento soggettivo non si richiede che sussista l'animus iniuriandi vel diffamanti, essendo sufficiente il dolo generico che può assumere la forma del dolo eventuale in quanto è sufficiente che l'agente consapevolmente faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive».
Più in generale il problema è l'individuazione del bene giuridico protetto dai primi 2 commi dell'articolo 595 del codice penale che tutelano «non soltanto la dignità individuale ed esistenziale, ma anche e soprattutto quella sociale, connotandosi la lesione alla reputazione come violazione del rapporto di riconoscimento dell'uomo. Realtà che vive nella società e non al di fuori di esso sarà dunque oggetto di tutela la proiezione della persona nella vita di relazione. Nella condotta in contestazione - spiega ancora la sentenza «giudici di appello hanno giustamente individuato un tipo di narrazione espressa via Facebook, con evidenti conseguenze in termini di diffusività e rapidità della comunicazione proprio dei social media, indubbiamente dotata di idoneità lesiva, al contempo dell'onore e della reputazione. Considerate queste premesse legittimamente la corte d'appello ha ritenuto di escludere sia la sussistenza dell'esimente della provocazione sia l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, profilo quest'ultimo posto nel secondo motivo del ricorso giudicato da questo collegio del pari inammissibile».
A questo proposito la Corte territoriale ha giustificato la mancata concessione delle circostanze considerati che «i precedenti penali riportati dall'uomo e l'assenza di qualsivoglia elemento positivo neppure evidenziato dalla difesa dal quale poter ricavare che lo stesso meritaste un trattamento sanzionatorio più mite. L'argomento proposto dalla difesa del leale comportamento processuale del ricorrente è stato evidentemente giudicato da quest'ultima come elemento non significativo a fronte della condotta penalmente rilevante dell'imputato». In questo modo «la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è stata giustificata nella sentenza che viene impugnata con la motivazione esente da manifesta illogicità che si sottrae per tanto il sindacato di questa corte. Giusto il principio espressione della consolidata espressione della giurisprudenza di legittimità secondo cui non è necessario che il giudice di merito nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti essendo sufficientemente faccia riferimento a quelli contenuti decisivi o comunque rilevanti rimanendo disatteso o superati tutti gli altri da tale valutazione».
La cybersecurity o sicurezza informatica, è l'insieme dei mezzi, delle tecnologie e procedure finalizzati alla protezione dei sistemi informatici da attacchi mirati a sottrarre dati e informazioni o a compromettere gli stessi sistemi
Cybersecurity: cos'è
La cybersecurity è l'insieme di tutte le tecniche, mezzi e tecnologie che consentono di proteggere un sistema informatico da attacchi malevoli provenienti dall'esterno, mirati a sottrarre dati e informazioni o a compromettere il funzionamento del sistema stesso.
Nel mondo contemporaneo, la sicurezza informatica rappresenta un argomento di primaria importanza. Ogni ambito della vita quotidiana, soprattutto lavorativo e professionale, è ormai coinvolto in un sistema di relazioni digitali e informatiche, grazie alla costante connessione "always on" su reti internet pubbliche o private. Il tema della protezione di reti e sistemi informatici, pertanto, è in continuo sviluppo non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello giuridico e normativo, come testimoniano i più recenti provvedimenti adottati a livello nazionale e comunitario.
Interessi in gioco: dai dati sensibili ai segreti industriali
La posta in gioco, per quanto attiene il tema della cybersecurity, è davvero alta, perché coinvolge interessi di persone e aziende, di privati ed enti pubblici, di imprese e professionisti.
Da alcuni anni, ormai, sono all'ordine del giorno le notizie che riportano episodi di attacchi informatici, più o meno estesi, il cui obiettivo può essere mutevole: dai dispositivi elettronici di uso comune, come smartphone e pc, alle reti aziendali, dai profili dei social network alle grandi banche dati in possesso di enti pubblici, banche e istituti sanitari e farmaceutici.
Oggetto degli attacchi possono essere i dati sensibili delle persone, i file e i documenti in possesso della pubblica amministrazione, i codici di accesso alle caselle e-mail o a conti bancari e carte di credito, brevetti e progetti delle grandi industrie o la funzionalità stessa dei sistemi informatici di enti e aziende.
L'escalation di attacchi informatici
E i rischi sono ancora maggiori se si pensa che oggi gran parte dei dati informatici sono conservati in maniera virtuale, con i sistemi cloud, e che viviamo in piena epoca dell'Internet of Things, dove ogni accessorio, elettrodomestico, dispositivo elettronico è costantemente connesso a reti informatiche.
Malware, spyware, attacchi DoS ad opera di hacker più o meno strutturati possono arrivare a mettere in crisi interi settori della società, dai trasporti alle comunicazioni: ne sa qualcosa anche l'ambito forense, che ha di recente conosciuto notevoli disagi per un esteso attacco alle caselle PEC dei professionisti legali.
Interventi normativi in Italia e UE
Proprio per questo motivo, la disciplina normativa e regolamentare in tema di sicurezza informatica appare in costante evoluzione, per dare risposte sempre più concrete ed efficienti all'eventualità di minacce che provengano dagli hacker e dal c.d. dark web, ma anche e soprattutto per sensibilizzare e creare una nuova consapevolezza negli utenti di ogni livello, dai semplici privati ai professionisti ed imprenditori, rispetto a tale fenomeno.
Se è vero che a già a livello nazionale esistono strutture che hanno nella lotta al cybercrime il loro oggetto principale (si pensi ai CERT e CSIRT istituiti a livello ministeriale per la gestione delle emergenze informatiche), è importante che un simile impegno sia affrontato anche a livello comunitario.
E proprio in quest'ottica rientra la recente adozione del c.d. Cybersecurity Act, con il Regolamento Europeo 881/2019 che mira, da un lato, a potenziare i poteri d'intervento dell'Agenzia dell'Unione Europea per la cibersicurezza (ENISA) in occasione di emergenze informatiche all'interno degli Stati membri, e dall'altro a creare un più pregnante sistema di certificazione in tema di cybersecurity per tutte le tecnologie informatiche e le reti di comunicazione.
Cybersecurity Act e Direttiva NIS
Il Cybersecurity Act, direttamente efficace in ogni Stato membro, va così ad affiancare la Direttiva NIS (Network and Information Security) del 2016, recepita in Italia con d.lgs. 65/2018, per creare un quadro normativo che si propone di coordinare, uniformare e standardizzare, per quanto possibile, le normative e le operazioni tecniche in tema di sicurezza informatica nei Paesi UE.
La cyber security, in questo modo, diviene sempre più un aspetto che le imprese e ogni altro operatore devono considerare con attenzione sin dall'inizio dell'attività, anche nell'ottica di accrescere la fiducia dei consumatori nella fruizione di beni e servizi che comportano la connessione a reti informatiche.
Ed è proprio in quest'ottica che gli interventi normativi sopra esaminati predispongono un dettagliato impianto di regole, destinato a tutti gli operatori, e in particolare a quelli attivi nei settori dei servizi essenziali e nella fornitura dei servizi digitali.
In particolare, è prevista una serie di obblighi in tema di certificazione dei sistemi, di notifica in caso di emergenze informatiche, di trattamento dei dati personali, e ad essi è ricollegato un articolato sistema di sanzioni amministrative (ad es., v. art 21 del d.lgs. di recepimento della direttiva NIS).
Si tratta pertanto di una serie interventi normativi quanto mai necessari e da tempo auspicati, in risposta al rilevante e sempre crescente fenomeno delle minacce informatiche, registrato negli ultimi anni nei più diversi ambiti.
Direttiva NIS2 e CVCN
Interventi normativi che però non si fermano qui. A livello europeo, nei primi mesi del 2022, anche a cause del conflitto Russia- Ucraina, è stata predisposta la bozza di un nuovo regolamento che eleva i livelli di sicurezza di istituzioni, agenzie e organi al fine di contrastare con più efficacia gli attacchi cyber.
Consiglio e Parlamento hanno inoltre trovato un accordo sulla Direttiva NIS2 che innalza il sistema di sicurezza in tutta Europa e che si propone di rafforzare la risposta agli attacchi cyber sia nel settore pubblico che in quello privato. Direttiva questa che una volta pronta andrà a sostituire la precedente Direttiva NIS, che come abbiamo visto, è stata recepita in Italia con il Dlgs n. 65/2018.
Centro di valutazione e Certificazione nazionale
Il 2022 però è anche l'anno in cui il Centro di valutazione e di Certificazione Nazionale diventa operativo a partire dal 30 giugno. Trattasi di un organismo istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico, previsto dal dlgs n. 105/2019, contenente "Disposizioni urgenti in materia di perimetro di sicurezza nazionale cibernetica e di disciplina dei poteri speciali nei settori di rilevanza strategica", il cui funzionamento è disciplinato dal DPR n. 54/2021.
Al Centro di Valutazione è stato affidato il compito di valutare beni, sistemi e servizi, che devono essere impiegati su infrastrutture ICT di supporto alla fornitura di servizi o di funzioni essenziali per lo Stato (i soggetti pubblici e privati fornitori dei suddetti servizi sono individuati dal DPCM n. 131/2020, mentre per quanto riguarda le misure di sicurezza, che i soggetti compresi nel Perimetro devono adottare e le modalità di notifica degli incidenti sono state indicate e definite dal DPCM n. 81/2021).
Chiaro quindi come il Centro di valutazione e di Certificazione Nazionale giochi un ruolo fondamentale nell'ambito della cybersicurity. Esso ha infatti il compito di definire le condizioni che i fornitori devono rispettare e i test hardware e software che dovranno eseguire. Condizioni e test che saranno inseriti nei bandi di gara e nei contratti con clausole in grado di condizionare l'accordo al rispetto delle condizioni e dei risultati dei test disposti dal CVCN.
L'impugnazione del testamento è un'azione esercitabile, nei modi e nei tempi previsti dal codice civile, per farne valere i vizi che riguardano la forma, il contenuto, la capacità del testatore e i vizi della volontà
Impugnazione del testamento: cos'è
L'impugnazione del testamento è un'azione che può essere esperita solo dopo la morte del testatore.
Dal punto di vista pratico per impugnare un testamento occorre redigere un atto di citazione davanti all'autorità giudiziaria competente, che coincide con il Tribunale collegiale del luogo in cui si è aperta la successione del de cuius. Occorre tuttavia ricordare che le successioni ereditarie fanno parte di quelle materie per le quali il decreto legislativo n. 28/2010 impone la mediazione obbligatoria come condizione di procedibilità. Questo significa che prima di impugnare un testamento davanti al Tribunale è necessario esperire il tentativo preventivo di mediazione obbligatoria.
Azioni giudiziarie contro il testamento
Quando si desidera impugnare un testamento, le ragioni possono essere diverse, così come diverse sono le azioni che si possono intraprendere in base al vizio o al difetto che si ritiene infici l'atto di ultima volontà.
- L'azione di annullamento è finalizzata ad ottenere una sentenza costitutiva in grado di eliminare le disposizioni testamentarie viziate
- L'azione di nullità si pone l'obiettivo di dichiarare la nullità delle volontà testamentarie del de cuius. L'inesistenza, vizio creato dalla dottrina e dalla giurisprudenza riguarda quelle ipotesi in cui le alterazioni del testamento sono così gravi da impedirne il riconoscimento come tale. Simile per certi aspetti alla nullità, se ne discosta però per le conseguenze.
- L'azione di riduzione infine è quella che viene riconosciuta in favore degli eredi legittimari che, a causa delle disposizioni testamentarie o di donazioni fatte in vita dal de cuius, subiscono la riduzione della propria quota.
Accettazione eredità e impugnazione del testamento
L'accettazione dell'eredità non ostacola l'impugnazione del testamento, che è atto separato. L'accettazione ha ad oggetto l'eredità devoluta, mentre il testamento è un negozio unilaterale. In alcuni casi l'accettazione dell'eredità è necessaria per poter procedere all'impugnazione del testamento. La distinzione tra accettazione e testamento emerge comunque dalla formulazione dell'art. 483 c.c, il quale dispone che: "L'accettazione dell'eredità non si può impugnare se è viziata da errore . Tuttavia, se si scopre un testamento del quale non si aveva notizia al tempo dell'accettazione, l'erede non è tenuto a soddisfare i legati scritti in esso oltre il valore dell'eredità, o con pregiudizio della porzione legittima che gli è dovuta . Se i beni ereditari non bastano a soddisfare tali legati, si riducono proporzionalmente anche i legati scritti in altri testamenti. Se alcuni legatari sono stati già soddisfatti per intero, contro di loro è data azione di regresso. L'onere di provare il valore dell'eredità incombe all'erede".
Vizi del testamento
I vizi che possono determinare l'impugnazione del testamento sono classificabili nelle seguenti categorie:
- vizi che riguardano la forma del testamento: il testamento olografo ad esempio deve essere sottoscritto dal testatore, mentre quello pubblico richiede necessariamente la redazione da parte di un notaio e la presenza di due testimoni. Il mancato rispetto di queste formalità vizia il testamento;
- vizi relativi al contenuto testamentario: sono quelli che derivano dal mancato rispetto delle norme che regolano la formazione del contenuto delle disposizioni testamentarie;
- vizi relativi alla capacità di disporre per testamento: pensiamo al testamento redatto da un soggetto che non ha ancora acquisito la capacità di agire come un minore;
- vizi della volontà: sono quelli invece che alterano la manifestazione di volontà del testatore e sono l'errore, la violenza e il dolo.
I vizi delle volontà, della capacità di disporre e della forma conducono all'azione di annullamento del testamento. Analizziamoli distintamente uno ad uno.
Vizi della volontà e annullabilità del testamento
Il primo comma dell'art. 624 c.c. prevede che la disposizione testamentaria possa essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l'effetto di errore, di violenza o di dolo. Tale disposizione è espressione del principio generale secondo cui un negozio giuridico è in genere invalido in presenza di un c.d. vizio della volontà.
La disciplina sui vizi della volontà delle disposizioni testamentarie è in parte analoga a quella di cui all'art. 1427 e ss. del codice civile relativa ai vizi del consenso in ambito contrattuale, ma complessivamente intesa presenta delle caratteristiche peculiari. La differenza di disciplina si coglie avendo riguardo alla sostanziale assenza in materia testamentaria dell'esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi.
La norma citata prevede infatti che la disposizione testamentaria possa essere impugnata ove sia "l'effetto" di errore, violenza e dolo, con ciò non richiedendo la riconoscibilità e l'essenzialità del vizio. In questi termini, nell'ambito della successione testamentaria, l'esigenza di carattere primario che l'ordinamento mira a tutelare è unicamente la libertà e volontà del testatore e conseguentemente l'accertamento della rilevanza del vizio verrà operato in concreto avendo riguardo esclusivamente alla volontà del de cuius.
Diversamente da quanto previsto dall'art. 1428 c.c., in materia testamentaria, è irrilevante la circostanza che l'errore sia o meno riconoscibile. Ciò che rileva è che vi sia stata una falsa rappresentazione della realtà che abbia inciso in maniera determinante sulla volontà del testatore. Analogamente, in tema di dolo o violenza la giurisprudenza ha precisato che occorre dare la prova che i fatti di induzione abbiano indirizzato la volontà del testatore in modo diverso da come essa avrebbe potuto normalmente determinarsi.
In base a quanto stabilito dal terzo comma l'azione di annullamento spetta a chiunque vi abbia interesse e si prescrive in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è avuta notizia del vizio.
Errore sul motivo
L'assenza di qualsivoglia esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi nei termini di cui si è detto spiega anche perché, al secondo comma dell'art. 624 c.c, viene previsto tra le cause di annullamento anche l'errore sul motivo sia di fatto, che di diritto. Tale previsione rappresenta un ulteriore scostamento dalla disciplina contrattuale nella quale l'errore sui motivi è in via di principio irrilevante. La norma prevede infatti che l'errore sul motivo possa essere causa di annullamento della disposizione testamentaria al ricorrere di due condizioni: da un lato ove il motivo erroneo "risulti" dal testamento e possa quindi essere desunto dall'insieme delle disposizioni testamentarie; dall'altro che il motivo sia stato "il solo che ha determinato il testatore a disporre".
Errore ostativo
Particolare attenzione alla volontà del testatore si scorge nella disciplina di cui all'art. 625 c.c. relativa al c.d. errore ostativo. Tale norma prevede che nel caso in cui vi sia stata un'erronea indicazione circa il soggetto individuato quale erede o legatario o della cosa che forma oggetto del testamento, la disposizione testamentaria non perda efficacia se "dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva nominare" o parimenti ove sia comunque "certo a quale cosa il testatore intendeva riferirsi". Tale disposizione è espressione del generale principio operante in materia testamentaria secondo cui in tema di interpretazione del testamento occorre riconoscere prevalenza alla volontà effettiva del testatore. Costituisce infatti applicazione specifica della regola di interpretazione soggettiva di cui all'art. 1362 c.c. che in ambito testamentario assume primario, se non assoluto rilievo.
Captazione
Quanto alle ipotesi di dolo - che in materia testamentaria prende il nome di captazione - non basta una qualsiasi influenza esercitata sul testatore, ma è necessario che vi sia stato l'impiego di mezzi fraudolenti che, tenuto conto dell'età, dello stato di salute e delle condizioni psichiche del de cuius, siano idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso verso il quale non si sarebbe spontaneamente indirizzata.
Vizi di forma e annullabilità del testamento
I vizi di forma del testamento che giustificano l'azione di annullamento sono quelli contemplati dall'art. 606 c.c. Trattasi di difetti residuali rispetto alla sottoscrizione del testamento olografo, alla mancata redazione in forma scritta da parte del notaio, alla mancata indicazione delle dichiarazioni del testatore e alla mancata sottoscrizione dell'atto da parte di entrambi per quanto riguarda il testamento pubblico, che ne determinano invece la nullità. Tanto per fare qualche esempio è annullabile il testamento olografo con data mancante o incompleta, la mancata lettura davanti ai testimoni di quello pubblico.
L'azione di annullamento, anche in questo caso, si prescrive nel termine di 5 anni, però dal giorno in cui è stata data esecuzioni alle disposizioni testamentarie e la stessa può essere intrapresa su istanza di chiunque vi abbia interesse.
Vizi della capacità di disporre per testamento
Il testamento non può essere redatto da un soggetto incapace a disporre come un minore, un interdetto e un soggetto incapace di intendere e volere nel momento in cui ha disposto per testamento, pur non essendo interdetto. Questo vizio, in base a quanto prevede l'art. 591 c.c, può essere fatto valere con l'impugnazione del testamento da chiunque vi abbia interesse. L'azione, come per i vizi di forma, si prescrive nel termine di 5 anni che decorre dal momento in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
Chi vuole impugnare il testamento redatto da un incapace ha l'onere, ovviamente, di dimostrare lo stato di incapacità, anche meramente transitorio, del soggetto che ha espresso e manifestato in un atto formale le sue ultime volontà.
L'articolo non fa alcun riferimento al soggetto sottoposto all'istituto dell'amministrazione di sostegno. Si ritiene pertanto che questo soggetto, a meno che il decreto di nomina dell'amministratore non disponga diversamente, possa redigere testamento.
La sentenza di annullamento
La sentenza che viene pronunciata al termine di un'azione di annullamento avente ad oggetto un intero testamento o una singola disposizione ha natura costitutiva. Questo comporta l'efficacia delle disposizioni testamentarie fino a quando qualcuno dei soggetti legittimati non impugni il testamento e non intervenga la relativa sentenza di annullamento. Se poi nessuno desideri impugnare il testamento e il termine di prescrizione di 5 anni previsto per agire decorre, a quel punto il testamento e le disposizioni in esso contenuto diventano efficaci in via definitiva.
Impugnazione del testamento e nullità
I vizi che determinato la nullità del testamento o delle singole disposizioni testamentarie sono più gravi di quelli che legittimano l'azione di annullamento. Essi possono riguardare la forma, la sostanza, ma anche la volontà.
Vizi di forma
I vizi di forma che conducono alla nullità del testamento, secondo l'art. 606 c.c. comma 1 sono la mancanza di sottoscrizione del testamento olografo e la mancanza di "redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione dell'uno o dell'altro, nel caso di testamento per atto di notaio."
Vizi di sostanza
I vizi di sostanza che determinano la nullità del testamento sono diverse, vediamo le più importanti:
- art. 596 c.c: sono nulle le disposizioni testamentarie della persona sottoposta a tutela in favore del tutore, se fatte dopo la nomina di questo e prima che sia approvato il conto o sia estinta l'azione per il rendimento del conto medesimo, quantunque il testatore sia morto dopo l'approvazione. Questa norma si applica anche al protutore, se il testamento è fatto nel tempo in cui egli sostituiva il tutore;
- art. 597 c.c: sono nulle le disposizioni a favore del notaio o di altro ufficiale che ha ricevuto il testamento pubblico, ovvero a favore di alcuno dei testimoni o dell' interprete intervenuti al testamento medesimo;
- art. 598 c.c: sono nulle le disposizioni a favore della persona che ha scritto il testamento segreto, salvo che siano approvate di mano dello stesso testatore o nell'atto della consegna. Sono pure nulle le disposizioni a favore del notaio a cui il testamento segreto è stato consegnato in plico non sigillato.
Trattasi di disposizioni che mirano a tutelare il rapporto esistente tra i soggetti coinvolti.
Vizi previsti a tutela della libertà testamentaria
L'art. 458 c.c. sul divieto dei patti successori sanziona con la nullità qualsiasi convenzione con cui qualcuno dispone della propria successione. E' altresì nullo "ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi."
Vietati e quindi nulli anche i testamenti congiuntivi e reciproci, ossia quelli previsti dall'art. 589 c.c., il quale dispone infatti che "Non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo né con disposizione reciproca."
Nulla altresì, ai sensi dell'art. 631 comma 1 "ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario ovvero la determinazione della quota di eredità."
Nullità delle singole disposizioni
Tra le ipotesi di nullità delle singole disposizioni testamentarie l'art. 626 c.c. prevede che il motivo illecito renda nulla la disposizione testamentaria, quando risulti dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre. In tal senso per motivo del testamento ci si riferisce alla ragione che ha determinato il testatore ad individuare un determinato soggetto. E' illecito il motivo contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ed è necessario, così come in materia di donazione (art. 788 c.c.), che il motivo risulti dall'atto.
La disposizione singola è nulla anche quando l'onere testamentario impossibile o illecito costituisce il solo motivo determinante della sua apposizione (art. 647 c.c.)
L'errore ex art. 625 c.c. può dar luogo a nullità della disposizione (e ciò diversamente da quanto avviene in materia contrattuale in cui l'errore ostativo rileva solo quale causa di annullamento) se non è possibile determinare con certezza il contenuto della disposizione testamentaria.
Nulla altresì la disposizione testamentaria fatta in favore di un soggetto indeterminabile (art. 628 c.c.).
Il legato di cosa dell’onerato o di un terzo è nullo salvo che dal testamento o da altra dichiarazione scritta dal testatore risulti che questi sapeva che la cosa legata apparteneva all'onerato o al terzo (art. 651 c.c.)
Il legato di cosa che al tempo in cui fu fatto il testamento era già di proprietà del legatario è nullo, se la cosa si trova in proprietà di lui anche al tempo dell’apertura della successione (art. 656 c.c.).
Testamento inesistente
Alla nullità e all'annullabilità si affianca il vizio di natura dottrinale e giurisprudenziale dell'inesistenza, che è talmente grave da non potersi applicare l'art. 590 c.c. il quale dispone che "La nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione."
È inesistente ad esempio il testamento nuncupativo, ossia quello orale, che non può essere convalidato, così come quello falso, il cui contenuto viene cambiato per intervento di soggetti terzi rispetto al testatore. Ovviamente anche questo testamento non può essere convalidato.
La sentenza di nullità
Dal momento che le disposizioni o i testamenti nulli o inesistenti sono improduttivi di effetti, la sentenza avrà un mero valore dichiarativo. L'azione relativa non è inoltre soggetta ad alcun termine di prescrizione.
Convalida delle disposizioni testamentarie
Alla luce delle recenti considerazioni sulla possibilità di convalidare anche le disposizioni viziate, si può concludere che, in base alla previsione contenuta nell'art. 590 c.c. è certa la possibilità di convalidare disposizioni nulle. Dottrina e giurisprudenza sono tuttavia concordi nel riconoscere questa possibilità anche in relazione alle disposizioni testamentarie o ai testamenti annullabili.
Azione di riduzione per lesione della legittima
L'azione di riduzione è prevista per ridurre le disposizioni testamentarie. Essa è prevista dall'articolo 553 del codice civile e spetta ai legittimari, successori a cui la legge accorda una tutela particolare. I legittimari sono infatti coloro che hanno con il de cuius un rapporto di coniugio o di parentela più stretti. Trattasi del coniuge, dei figli e degli ascendenti. Solo a questi soggetti compete l'azione di riduzione.
Ovviamente l'entità delle quote della legittima varia in base al numero dei legittimari che concorrono sulla stessa successione, essa è però è condizionata anche dalla consistenza del patrimonio del defunto, che in base all'articolo 556 del codice civile è rappresentato dei diritti di credito presenti all'apertura della successione detratti i debiti e sommate le donazioni effettuate dal defunto quando era ancora in vita.
Per quanto riguarda le modalità concrete dell'azione di riduzione l'articolo 558 del codice civile stabilisce che la riduzione è proporzionale, senza distinzione alcuna tra eredi e legatario. Se la riduzione delle disposizioni testamentarie risulta però insufficiente ad integrare la quota del legittimario che è stato leso costui potrà agire in riduzione nei confronti delle donazioni perfezionate in vita dal defunto a partire dall'ultima in ordine di tempo.
Per poter attivare l'azione di riduzione però i legittimari devono prima accettare le utilità con beneficio di inventario, chi invece è destinatario di un legato in sostituzione della legittima prima di poter intraprendere l'azione di riduzione dovrà rinunciare al legato a meno che non si tratti di un legato con facoltà di supplemento.
Abbiamo trattato il discorso dell'azione di riduzione perché collegata alle disposizioni testamentarie e all'impugnazione del testamento. Occorre però precisare a riguardo che nel caso di questa azione le disposizioni testamentarie impugnate non sono nulle né tantomeno annullabili, esse infatti vengono solo ridotte nella loro entità.
Giurisprudenza e dottrina sono concordi infine nel riconoscere a questa azione natura di accertamento costitutivo, infatti essa accerta la lesione della legittima e avvia la reintegrazione della parte lesa.
Il termine di prescrizione per poter esercitare l'azione di riduzione delle disposizioni testamentarie e di 10 anni. Dubbi sussistono in ordine alla decorrenza del termine. Una parte della dottrina ritiene che esso decorre dalla data di apertura della successione ossia dalla data di morte del de cuius, altra giurisprudenza più autorevole e anche più recente ritiene inviene che il termine di prescrizione decorra dalla data di accettazione dell'eredità.
Costi dell'impugnazione del testamento
Giunti al termine di questa trattazione occorre chiarire, per quanto riguarda il costo della procedura di impugnazione del testamento o delle singole disposizioni, che lo stesso è assai variabile.
Abbiamo visto infatti che prima di tutto è necessario esperire il tentativo obbligatorio di mediazione come condizione di procedibilità dell'azione in giudizio. Ne consegue che se la controversia relativa al testamento si risolve in sede di mediazione i costi saranno decisamente contenuti. In questi casi potrebbe essere sufficiente l'esborso di qualche centinaio di euro.
Quando si intraprende invece un'azione giudiziaria, in caso di insuccesso della mediazione, è necessario ragionare in termini di qualche migliaio di euro.
Il pignoramento presso terzi ex art. 543 c.p.c. è una forma di esecuzione forzata che ha per oggetto beni del debitore in possesso di terzi ovvero crediti del debitore nei confronti dei terzi
Cos'è il pignoramento presso terzi
Secondo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile i creditori possono soddisfare le loro pretese aggredendo i beni del debitore in vari modi, differenti a seconda che questi siano mobili o immobili e che siano nella disponibilità del debitore o di un terzo.
Il pignoramento presso terzi riguarda i beni del debitore che sono nella disponibilità del terzo.
Più precisamente, l'articolo 543 c.p.c., che disciplina l'istituto, contempla due distinte ipotesi di pignoramento presso terzi: quella in cui il terzo sia in possesso di beni del debitore o quella in cui quest'ultimo vanti crediti nei confronti del terzo.
Requisiti dell'atto di pignoramento presso terzi
L'atto di pignoramento, notificato al terzo e al debitore, deve innanzitutto contenere l'ingiunzione a non compiere atti dispositivi sui beni e sui crediti assoggettati al pignoramento, come previsto in via generale dall'articolo 492 c.p.c..
In esso devono poi essere riportati l'indicazione, almeno generica, delle cose e delle somme dovute, l'intimazione al terzo di non disporne se non per ordine del giudice, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il tribunale competente e l'indicazione dell'indirizzo p.e.c. del creditore procedente.
L'atto deve infine contenere la citazione del debitore a comparire dinanzi al giudice competente, indicando un'udienza nel rispetto del termine dilatorio di pignoramento di cui all'articolo 501 c.p.c., e l'invito al terzo a rendere entro dieci giorni al creditore procedente la dichiarazione prevista dall'articolo 547 (della quale si dirà meglio in seguito), con l'avvertimento che in caso contrario, la stessa dovrà essere resa comparendo in un'apposita udienza e che se il terzo non compare o, sebbene comparso, non rende la dichiarazione, il credito pignorato o il possesso di cose di appartenenza del debitore si considereranno non contestati nell'ammontare o nei termini indicati dal creditore, ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione, se l'allegazione del creditore consente l'identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del terzo.
Termini per l'iscrizione a ruolo del pignoramento
L'originale dell'atto di citazione è consegnato al creditore senza ritardo dall'ufficiale giudiziario, non appena eseguita l'ultima notificazione.
A questo punto il creditore deve depositare nella cancelleria del tribunale competente per l'esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dell'atto di citazione, del titolo esecutivo e del precetto, entro trenta giorni dalla consegna, pena perdita di efficacia del pignoramento.
Obblighi del terzo pignorato
Secondo quanto previsto dall'articolo 547 c.p.c., il terzo deve rendere al creditore procedente una dichiarazione, da farsi a mezzo raccomandata a/r o p.e.c. anche attraverso procuratore speciale o difensore munito di procura speciale, nella quale specifica di quali cose o somme è debitore o si trova in possesso e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna, i sequestri precedentemente eseguiti presso di lui e le cessioni che gli sono state già notificate o che ha accettato.
Se sulla dichiarazione sorgono contestazioni o se a seguito della mancata dichiarazione del terzo non è possibile identificare esattamente il credito o i beni del debitore in suo possesso, il giudice, su istanza di parte, provvede con ordinanza, compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio tra le parti e con il terzo.
Dal momento in cui gli è notificato l'atto di pignoramento, poi, il terzo è tenuto a rispettare gli obblighi imposti dalla legge al custode con riferimento alle cose e alle somme dovute e nei limiti dell'importo del credito precettato aumentato della metà.
Crediti impignorabili
In ogni caso, non tutti i crediti del debitore verso il terzo possono essere pignorati.
Infatti sono impignorabili i crediti alimentari, tranne che per le cause di alimenti, i crediti aventi come oggetto sussidi di grazia o sostentamento a persone comprese nell'elenco dei poveri o dovuti per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficenza.
Crediti limitatamente pignorabili
Con la riforma di cui al d.l. n. 83/2015, sono stati poi introdotti nuovi limiti con riferimento al pignoramento delle somme relative al rapporto di lavoro o di impiego.
Nel dettaglio, le somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego (comprese quelle dovute a causa di licenziamento), possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato, mentre per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni e per ogni altro credito possono essere pignorate nella misura di un quinto.
Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, invece, secondo quanto previsto dalla recente riforma, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell'assegno sociale, aumentato della metà, mentre la parte eccedente è pignorabile nelle misure previste per stipendio e salario e per le altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego.
Nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore di tutte le predette somme, il d.l. n. 83/2015 ha previsto due diverse ipotesi.
Nel caso in cui l'accredito in banca sia antecedente al pignoramento, esse potranno essere pignorate per l'importo eccedente il triplo dell'assegno sociale, mentre, se l'accredito è contestuale o successivo al pignoramento, esse potranno essere pignorate nella misura autorizzata dal giudice, in ogni caso non oltre il quinto.
Se il pignoramento supera tutti i predetti limiti, la parte eccedente è inefficace.
Pignoramento presso terzi: le novità della riforma del processo civile
Il pignoramento presso terzi dal 22 giugno 2022 pone a carico del creditore un altro onere, anzi due, a pena d'inefficacia del pignoramento.
La novità entra infatti in vigore a partire dal 180° giorno successivo all'entrata in vigore del 24 dicembre 2021 della Legge n. 206/2021, che ha conferito la delega al Governo di riformare il processo civile per renderlo più efficiente e per razionalizzare, tra le varie procedure, anche quella di esecuzione forzata.
Da qui la modifica anche dell'art 543 c.p.c, che si occupa della forma del pignoramento, al quale vengono aggiunti, dopo il 4°, due nuovi commi del seguente tenore:
- "Il creditore, entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l'avviso notificato nel fascicolo dell'esecuzione. La mancata notifica dell'avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell'esecuzione determina l'inefficacia del pignoramento.
- Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l'inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l'avviso. In ogni caso, ove la notifica dell'avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell'udienza indicata nell'atto di pignoramento".
La Corte di Appello di Bologna confermava una sentenza del Tribunale di Modena che, emessa all’esito di giudizio dibattimentale, condannava l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 642, secondo comma, cod. pen..
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento adottato dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza della motivazione della sentenza impugnata; 2) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 642 cod. pen..
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto inammissibile per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito innanzitutto, in ordine alla prima doglianza, che non integrava, di per sé, vizio della motivazione il fatto che la Corte d’appello di Bologna avesse richiamato le motivazioni della sentenza di primo grado del Tribunale di Modena atteso che la struttura argomentativa della sentenza di appello si può saldare con quella di primo grado, ricorrendo, in tal caso, la cosiddetta “doppia conforme” con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011).
Tal che se ne faceva discendere che tale motivo si appalesasse, pertanto, manifestamente infondato.
Ciò posto, a proposito della seconda doglianza, si osservava prima di tutto che l’art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede, nei suoi commi primo e secondo, cinque diverse fattispecie di reato — in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel comma primo; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro, nel comma secondo — che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro (Sez. 2, n. 1856 del 17/12/2013), rilevandosi al contempo che il legislatore, con la fattispecie in considerazione, ha inteso prevedere una tutela speciale e in qualche modo “rafforzata” a protezione del mercato delle assicurazioni, predisponendo la tutela anticipata nel caso in cui l’azione fraudolenta tipica del reato di truffa si innesti su un rapporto assicurativo; in altri termini, l’art. 642 cod. pen. costituisce, cioè, un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’art. 640 cod. pen. considerato che, nel primo, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore (Sez. 6, n. 2506 del 13/11/2003; Sez. 1, n. 4352 del 10/04/1997).
Oltre a ciò, era altresì notato che, da un lato, le fattispecie previste dall’art. 642 cod. pen. si presentano “speciali” rispetto all’archetipo della truffa perché predispongono una tutela anticipata e rafforzata del patrimonio delle società che gestiscono le assicurazioni, dall’altro, nel caso, come quello in oggetto, di denuncia di un sinistro stradale in realtà mai accaduto, tale fattispecie, come più volte affermato in sede di legittimità, non costituisce un reato “proprio“, attribuibile esclusivamente al contraente della polizza, essendo, invece, ravvisabile in capo a qualsiasi soggetto, anche estraneo al sinallagma, il quale, manipolando illecitamente il rapporto contrattuale, denunci, o concorra nel denunciare, il sinistro non accaduto (Sez. 2, n. 43534 del 19/11/2021; Sez. 2, n. 4389 del 11/10/2018).
Da ciò se ne faceva discende che in modo (ritenuto) corretto e logico i giudici di merito avevano ritenuto che l’imputato, presentando, per il tramite di altra persona da lui incaricato, richiesta di risarcimento del danno cagionatogli dal non accaduto sinistro, con allegata la relativa constatazione amichevole, avesse concorso nella denuncia del falso sinistro, materialmente da questi presentata e finalizzata, comunque, a fare ottenere il risarcimento del danno all’autore materiale.
Da qui, come già rilevato anche prima, se ne faceva discendere l’inammissibilità del ricorso e la contestuale condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento, in favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila.
Conclusioni
La decisione in oggetto desta un certo interesse in quanto sono ivi chiariti taluni aspetti del reato preveduto dall’art. 642 cod. pen..
Difatti, fermo restando che tale disposizione legislativa incrimina, come è noto, il fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e la mutilazione fraudolenta della propria persona, in tale decisione, si afferma, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che l’art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede, nei suoi commi primo e secondo, cinque diverse fattispecie di reato; in particolare, al primo comma è contemplato il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza mentre, nel comma secondo, è prevista la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro, nel comma secondo che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro, rilevandosi al contempo, da un lato, che le fattispecie previste dall’art. 642 cod. pen. si presentano “speciali” rispetto all’archetipo della truffa perché predispongono una tutela anticipata e rafforzata del patrimonio delle società che gestiscono le assicurazioni, dall’altro, che, nel caso di denuncia di un sinistro stradale in realtà mai accaduto, tale fattispecie, come più volte affermato in sede di legittimità, non costituisce un reato “proprio“, attribuibile esclusivamente al contraente della polizza essendo, invece, ravvisabile in capo a qualsiasi soggetto, anche estraneo al sinallagma, il quale, manipolando illecitamente il rapporto contrattuale, denunci, o concorra nel denunciare, il sinistro non accaduto.
Tale provvedimento, quindi, con particolar riguardo al caso di c.d. frode assicurativa, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di individuare chi sono gli autori di questa fattispecie criminosa, e, rispetto a quali condotte costoro possano rispondere in ordine a siffatto illecito penale.
Il giudice nel valutare la capacità genitoriale tiene conto anche dell'impegno profuso da entrambi di voler garantire al minore la presenza anche dell'altra figura, se questo non accade si lede il diritto alla bigenitorialità
Responsabilità genitoriale
Confermata la decisione della Corte di Appello che a sua volta h confermato la decisione del Tribunale dei minorenni relativa alla revoca della responsabilità genitoriale di una madre. La donna, ansiosa e controllante, ha creato attorno al bambino un clima di negatività e sfiducia verso il mondo e il padre provocando al minore un trauma grave. Durane i primi gradi del giudizio la donna ha mostrato una condotta improntata a scarsa collaborazione e anche della vicenda giudiziaria ha una visione paranoica e negativa. L'interesse primario del minore è quella di avere una crescita sana ed equilibrata e di conservare il diritto all bigenitorialità, che tuttavia, come nel caso di specie, può richiedere interventi mirati come incontri protetti con la madre e un percorso terapeutico che si presenta senza dubbio lungo e difficile. Queste le conclusioni della Cassazione contenute nell'ordinanza n. 19305/2022 (sotto allegata).
La vicenda processuale
Una madre viene privata della responsabilità genitoriale con decreto del Tribunale dei minori di Lecce. Decisione che la donna impugna, ma che viene rigettata dalla Corte di Appello.
In primo grado viene disposto infatti che il bambino venga dimesso dalla comunità in cui era stato collocato con il padre, che sia affidato a quest'ultimo e posto sotto il controllo dei servizi sociali. Viene inoltre disposto un programma psicologico distinto per padre, madre e figlio e incontri in uno spazio neutro tra madre e figlio. Condizioni da rimodulare al compimento dei 10 anni del bambino.
La Corte ha confermato quanto appurato in sede di primo grado, ossia il forte condizionamento psicologico esercitato dalla madre sul figlio, come confermato anche dalle relazioni del responsabile della comunità e dei consulenti. La personalità della madre è risultata infatti ansiosa e controllante, buono invece il rapporto del minore con il padre. La donna inoltre, come evidenziato dalla Corte, non progredisce nel rapporto con il figlio di cui non riesce a riconoscere i bisogni.
Essa presenta un disturbo paranoide ed è rigida nelle proprie percezioni persecutorie, frutto solo del suo pensiero, che trasmette negativamente al figlio.
La decisione di privare la madre della responsabilità genitoriale è dettata dalla necessità di tutelare il bambino e garantirgli un percorso di crescita sano ed equilibrato. Decisione ovviamente momentanea poiché obiettivo del progetto che il Tribunale ha chiesto ai servizi sociali è quello di garantire al minore il diritto alla bigenitorialità, che comporta il necessario recupero del rapporto con la madre.
Omessa la valutazione sulla fondatezza scientifica della PAS
La madre ovviamente ricorre in Cassazione, sollevando ben 5 motivi di doglianza:
- Con il primo contesta la valutazione acritica della Corte di Appello della consulenza tecnica, che ha concluso per la diagnosi di alienazione parentale omettendo ogni verifica di fondamento scientifico della stessa. Di contro è stato dato per buono l'esito assolutorio del giudizio per maltrattamenti familiari a carico del padre del minore.
- Con il secondo lamenta la violazione dell'onere della prova per avere la corte riconosciuto valore probatorio all'elaborato peritale, finendo in tal modo per alleggerire l'onere posto a carico del padre del minore.
- Con il terzo rileva l'omesso esame di un fatto decisivo come le ragioni del rifiuto del minore nei confronti del padre.
- Con il quarto, sempre l'omesso esame di un fatto decisivo come l'esame del provvedimento del tribunale ordinario da cui emerge la condotta per nulla ostruzionistica nei confronti del padre del bambino.
- Con il quinto infine rileva il mancato rispetto di diverse regole procedurali come le mancate riprese audio e video in sede di ascolto del minore da parte del giudice.
Una visione paranoica e negativa traumatizza gravemente il figlio
La Cassazione dichiara il ricorso ammissibile, ma lo rigetta per diverse ragioni.
Infondato il primo motivo del ricorso poiché il giudice, quando un genitore denuncia condotte di allontanamento da parte dell'altro genitore dal figlio minore, indicativi della PAS, è tenuto ad accertare prima di tutto la veridicità di tali comportamenti ricorrendo alle prove comuni, a prescindere dal giudizio di validità o meno di detta teoria. A rilevare è il giudizio sull'idoneità genitoriale e la capacità dei genitori di garantire al figlio la continuità nel rapporto con l'altro.
La Corte di appello inoltre ha ritenuto che le consulenze appaiono lineari e non contraddittorie. I consulenti hanno escluso un disturbo della personalità, esse hanno però sostenuto che la donna ha una visione paranoide della realtà e della vicenda giudiziaria, dimostrando di non distinguere tra quella che è la propria percezione della realtà e i fatti.
Inammissibile il secondo motivo relativo alla mancata acquisizione dei video e degli audio degli incontri protetti madre figlio perché la Corte di appello ha già affermato che la donna non ha dedotto fatti specifici in grado di metter in dubbio la genuinità delle relazioni degli addetti alla comunità.
Infondato il terzo motivo perché la Corte ha spiegato che la disfunzionalità del rapporto madre figlio era rilevabile nella incapacità della donna di dare al piccolo le necessarie sicurezze per la sua crescita. La stessa trasmetteva al minore una visione negativa del padre e sospettosa del mondo, condizionando così il piccolo, che non poteva avviarsi verso l'autonomia.
Il minore nei primi anni, ha quindi avuto una percezione della realtà "altamente spaventante e traumatica", per cui l'equilibrio che lo stesso deve raggiungere richiede tempo e interventi specifici. Vero che occorre riconoscere al minore il diritto alla bigenitorialità, ma proprio perché l'interesse a una crescita sana ed equilibrata è prioritario è necessario adottare le misure necessarie per tutelarlo. Nel caso di specie le decisioni prese sono state corrette e ragionevoli tanto che il bambino ha continuato a vedere la madre, seppure nel corso di incontri protetti.
Inammissibile il quarto motivo per assenza di specificità, così come è inammissibile il quinto per la novità della questione dedotta.
Per la Cassazione, la violazione del divieto di svolgere qualsiasi attività lavorativa giustifica il provvedimento
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante l'aspettativa per motivi familiari svolge attività lavorativa. Così ha deciso la Cassazione (ordinanza n. 19321/2022).
Il caso
Il lavoratore in aspettativa per gravi motivi familiari ha lavorato presso l'attività del coniuge, e per tale ragione è stato licenziato. Questi si è ovviamente opposto al provvedimento del datore, sostenendo che l'aspettativa concessa non aveva comportato benefici economici o costi per la collettività, e neppure conseguenze per il suo datore di lavoro, in quanto non aveva avuto la necessità di sostituirlo.
Gravità dell'inadempimento giustifica licenziamento
Al contrario, per la corte, come per i giudici di merito, sussiste il giustificato motivo soggettivo. Infatti, a nulla rileva che abbia prestato la propria opera presso l'impresa del coniuge.
La gravità dell'inadempimento si basa sulla violazione del divieto di svolgere, nel periodo di tempo dell'aspettativa concessa per gravi motivi familiari, qualsiasi attività lavorativa. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è stato ritenuto proporzionato a tale inadempimento, applicando le relative clausole generali in relazione all'espresso divieto normativo.
In quali casi ed in che modo è possibile ottenere il risarcimento dei pregiudizi non economici subiti.
Se ti è capitato di subire un danno vorrai probabilmente essere risarcito da colui che te lo ha procurato. Tale danno potrà essere qualificato come patrimoniale quando consiste in un pregiudizio di tipo economico. Si pensi alle spese mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, o ancora, alle spese di riparazione dell’automobile.
Tuttavia, il concetto di danno non è solo quello economico. Può ben accadere, infatti, che oltre ai pregiudizi di tipo patrimoniale, un soggetto subisca anche dei pregiudizi non connotati da rilevanza economica. In questi casi, si parla di danni non patrimoniali. Quando è risarcibile il danno non patrimoniale? Tornando al caso dell’incidente stradale, le sofferenze patite a causa della perdita di un familiare vittima dell’incidente, o le lesioni alla salute subite, rientrerebbero senz’altro in tale nozione di danno.
In questo articolo, ti spiegheremo quando è risarcibile il danno non patrimoniale.
Danno patrimoniale: che cos’è?
Il danno è patrimoniale quando il danneggiato lamenta un pregiudizio ad un bene suscettibile di valutazione economica (per esempio, all’automobile). Si tratta cioè di una perdita economica subita che deve essere quantificata sia in termini di spese sostenute a causa dell’evento (danno emergente), che in termini di mancato guadagno e, quindi, impoverimento del proprio patrimonio (lucro cessante).
Nel caso dell’incidente stradale saranno ascrivibili alla prima categoria le spese sostenute per la riparazione del veicolo, mentre apparterranno alla voce del lucro cessante i mancati guadagni derivanti dai tempi di riparazione del mezzo. Si pensi al caso di un tassista costretto a non poter lavorare sino all’avvenuta riconsegna del mezzo.
Per ottenere la riparazione del pregiudizio subito il danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno per equivalente o il risarcimento del danno in forma specifica. Nel primo caso, chiederà una somma di denaro equivalente all’entità del danno subito, nel secondo caso potrà invece ottenere il ripristino della situazione che sarebbe esistita ove l’illecito non si fosse verificato (la riparazione dell’automobile nel caso del sinistro stradale).
Danno non patrimoniale: quando è risarcibile?
Il danno è non patrimoniale quando il danneggiato lamenta un pregiudizio ad un bene insuscettibile di valutazione economica (per esempio, alla salute). Tale voce di danno, seppur deve essere considerata unitariamente, viene storicamente suddivisa in tre categorie a carattere descrittivo:
- danno biologico: consiste nel pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale e indipendente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità reddituale. È quindi il caso di danno alla salute, all’integrità psico-fisica, all’aspetto esteriore ecc.;
- danno morale: definito come il patema d’animo o la sofferenza soggettiva provata dalla vittima di un illecito. Si pensi alle sofferenze patite dalla vittima di condotte persecutorie (stalking), al soggetto vittima di mobbing sfociato in un ingiusto licenziamento o, ancora, al dolore sofferto dai parenti della vittima di un omicidio;
- danno esistenziale: rappresentato dal peggioramento della qualità di vita di un soggetto o dalla radicale alterazione delle sue abitudini e del suo stile di vita. È il caso, ad esempio, di un soggetto sfigurato a causa di un errato intervento chirurgico.
Chiarito cosa si intende per danno non patrimoniale, è necessario ora comprendere quando tale tipologia di danno può essere risarcita.
Orbene, il danno non patrimoniale può essere risarcito esclusivamente nei seguenti casi:
- quando il fatto illecito integra una fattispecie penalmente rilevante, si pensi ad un soggetto vittima di minacce e percosse.
- quando vi è un’espressa previsione di legge che ne riconosce la risarcibilità. È il caso, ad esempio, dei danni cagionati da illecito trattamento dei dati personali o del cosiddetto danno da vacanza rovinata;
- e, infine, come chiarito a più riprese dalla Corte di Cassazione, quando il danno è conseguenza della lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente tutelati. Tuttavia, onde evitare un uso distorto di tale strumento, i giudici hanno anche chiarito che deve trattarsi di un danno “serio” e di una lesione “grave” ai diritti inviolabili della persona. Non potrai cioè chiedere il risarcimento per meri fastidi subiti o per danni del tutto immaginari.
Alcuni esempi di danni non patrimoniali
Vediamo quindi alcuni casi particolari nei quali la giurisprudenza ha riconosciuto la sussistenza di un danno non patrimoniale.
La Cassazione ha individuato il cosiddetto danno biologico terminale nelle consapevoli sofferenze e nell’agonia sofferte – per un apprezzabile lasso temporale – da un individuo prima di decedere.
In un altro caso, i giudici hanno ravvisato un danno da nascita indesiderata nella condotta del medico che, omettendo o errando una diagnosi relativa alla malformazione del feto, non permette ai genitori di decidere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza.
Si pensi, infine, al danno alla propria immagine, ovverosia il danno conseguente alla lesione subita alla propria reputazione e identità personale.
Auto danneggiata da righe con la chiave: che valore ha la ripresa video? Si può usare per la denuncia e la richiesta di risarcimento del danno?
Partiamo subito col dire che il reato di danneggiamento è stato depenalizzato con esclusione solo delle ipotesi in cui la cosa danneggiata è «esposta alla fede pubblica». Tale è la situazione in cui l’auto si trova su una strada pubblica o in un luogo privato aperto al pubblico (come ad esempio il parcheggio di un supermercato o di un cinema). In quest’ultima ipotesi, dunque, c’è ancora spazio per la querela. La querela deve essere presentata entro 3 mesi da quando il fatto è stato commesso o scoperto. Se non si conosce il nome dell’autore del reato ma si è in possesso di una sua descrizione o di una foto è possibile presentare la querela contro «persona da identificare». Diversamente, quando non si è a conoscenza del colpevole, la querela – per quanto utile possa essere – andrà depositata «contro ignoti».
Detto ciò, vediamo cosa si può fare per procurarsi la prova dell’illecito. Si può filmare una persona che riga la macchina? Sicuramente, le riprese video o le registrazioni audio, quando compiute in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sono lecite a meno che non integrino gli estremi del reato di molestie. Sarebbe una molestia fotografare una persona sconosciuta che passeggia senza dar alcun fastidio a nessuno.
Filmare una persona mentre commette un reato o comunque un altro illecito (ad esempio sta offendendo e ingiuriando un passante, occupa un posto auto per invalidi, ecc.) è consentito a patto che la registrazione venga conservata per sé stessi, non venga diffusa a terzi, non venga pubblicata su Internet e se ne faccia comunque un uso conforme alla legge. Tale uso deve quindi essere rivolto a tutelare i propri o gli altrui diritti. Dunque, riprendere una persona mentre riga una macchina è consentito a patto che il filmato non venga caricato su un profilo social o comunque inoltrato ad altre persone ma venga impiegato per scopi giudiziari.
Il file video può essere quindi sia utilizzato per sporgere la querela, sia per procedere in via civile con una richiesta di risarcimento del danno.
Circa la possibilità che tale documento video possa costituire prova, nell’ambito del diritto penale e civile non vi sono problemi di sorta, purché la qualità delle riprese sia tale da rendere pienamente riconoscibile il colpevole. Non vi devono cioè essere incertezze in merito alla sua identità, come invece potrebbe succedere qualora il responsabile venga ripreso alle spalle, senza che il volto possa essere individuato.
Nell’ambito del processo civile, la ripresa video viene classificata come una “riproduzione meccanica” che fa prova salvo che la parte contro cui è prodotta non la contesta. Ma la contestazione non può essere generica: al contrario, deve suggerire al giudice le ragioni per cui il filmato non può ritenersi attendibile. Diversamente, il magistrato dovrà assumere il file come prova dell’illecito e fondare la propria decisione anche solo su di esso.
Si tenga conto che per ottenere il risarcimento contro chi riga l’auto è possibile agire in due modi:
- in sede penale, dopo che le indagini sono terminate ed è iniziato il processo vero e proprio contro l’imputato, attraverso la costituzione di parte civile, mediante un proprio avvocato. In tale sede il giudice fisserà, con la condanna, anche una «provvisionale»: una sorta di risarcimento in via forfettaria. Il danneggiato potrà poi agire in via civile per l’esatta quantificazione del danno e per chiedere l’eventuale differenza;
- direttamente con una causa civile per il risarcimento del danno. Danno ovviamente, anche in questa sede, da dimostrare attraverso il preventivo dell’officina.
Si tenga infine conto di altre due importanti questioni. Secondo la giurisprudenza, il filmato può essere ottenuto anche puntando una telecamera direttamente dal balcone di casa propria contro l’auto, a patto che non riprenda parti comuni del condominio (come il cortile) o pubbliche (come la strada).
Inoltre, in mancanza di prove fotografiche o video, è possibile ottenere la prova del fatto e dell’identità del colpevole tramite la testimonianza oculare di un passante o di chiunque altro abbia assistito alla scena.
Nella mattinata odierna, i Carabinieri del Comando Provinciale di Avellino hanno dato esecuzione a un’ordinanza applicativa di misure cautelari nei confronti di 11 persone (delle quali 4 destinatarie della misura coercitiva carceraria, 4 della misura degli arresti domiciliari, una dell’obbligo di dimora e due della sospensione dall’esercizio della professione di consulente per infortunistica stradale) emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Avellino, su richiesta della Procura della Repubblica, in quanto gravemente indiziate, allo stato delle indagini, di “associazione per delinquere” finalizzata alla “truffa in danno di istituto di assicurazione”, nonché di “falsità materiale ed ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”.
L’attività di indagine ha consentito di disvelare l’esistenza di tre distinti gruppi criminali, operanti prevalentemente nel Capoluogo avellinese, dediti all’organizzazione di una notevole quantità di falsi sinistri stradali, con il concorso di diversi complici, di varia estrazione sociale e professionale. L’organizzazione risulta aver precostituito 74 falsi sinistri stradali, per un potenziale danno economico alle compagnie assicurative coinvolte pari a circa 600.000 euro (di cui oltre 270.000 circa già liquidati a favore delle false vittime degli incidenti).
Le indagini hanno, altresì, consentito di ricostruire l’articolata compagine organizzativa, fatta, appunto, di distinti gruppi criminali, operanti in ambiti diversi, acquisendo indizi di reità nei confronti di 267 persone, ciascuna delle quali con compiti ben precisi. Il protocollo operativo dei gruppi era, tuttavia, simile: i falsi sinistri erano inscenati in aree prive di sistemi di videosorveglianza e le lesioni, procurate al fine di supportare le richieste risarcitorie, andavano dalle ipotesi più lievi delle ecchimosi o delle abrasioni fino a quelle più gravi della rottura dei denti o delle lesioni agli arti. A tal fine, gli indiziati assoldavano soprattutto persone in precarie condizioni economiche, in alcuni casi anche minorenni o soggetti affetti da gravi patologie. Questi ultimi acconsentivano a subire lesioni di particolare gravità, con la promessa che il risarcimento assicurativo sarebbe stato tanto più consistente quanto più gravi fossero state le lesioni.
I sodalizi si avvalevano, per la compiuta istruzione delle pratiche risarcitorie, di 17 medici (indagati per aver rilasciato attestazioni false circa le lesioni subite dalle vittime), di 3 avvocati (due dei quali destinatari della misura restrittiva degli arresti domiciliari) e di 2 titolari di studi di infortunistica stradale (destinatari del provvedimento di inibizione all’esercizio dell’attività professionale).
Nel medesimo contesto operativo, sono state effettuate perquisizioni, con la presenza del Pubblico Ministero, presso i domicili e gli studi legali riconducibili a due avvocati indagati e si è data esecuzione ad un provvedimento di sequestro preventivo di beni mobili ed immobili (per la somma concorrente di euro 273.000) nei confronti di 10 degli indagati, ritenuti i promotori e gli organizzatori dei sodalizi. L’indagine in questione si inserisce in un più articolato programma investigativo, elaborato da questo Ufficio in collaborazione con le Forze di Polizia, volto a contrastare il dilagante fenomeno delle frodi assicurative, con le connesse ripercussioni sugli assicurati onesti.
Due condanne e quattordici assoluzioni. Queste le sentenze del tribunale di Palermo al termine del processo ad una presunta organizzazione specializzata alle truffe alle assicurazioni per fatti che risalgono tra il 2010 ed il 2013.
Le due condanne
Le accuse sono cadute per tutti gli imputati tranne per Nicola Pedona, condannato a due anni e un mese e per Fabrizio Costa al quale è stata inflitta una pena di un anno e dieci mesi di reclusione.
Caduta l’aggravante dell’associazione a delinquere
Tra assoluzioni, nel merito e per prescrizioni, per tutti gli imputati è caduta l’aggravante dell’associazione a delinquere. Lo ha stabilito la sentenza emessa dalla quinta sezione penale del tribunale presieduta dal giudice Sergio Ziino con a latere, Giangaspare Camerini e Daniela Vascellaro.
La tesi dell’accusa
Secondo i pubblici ministeri Bernardo Petralia e Anna Battaglia, che si erano occupati dell’inchiesta, i sedici imputati in giudizio avrebbero messo in piedi una serie di raggiri ai danni delle compagnie assicurative.
La ricostruzione delle indagini
Secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini avrebbero simulato il furto di un’auto denunciandolo la sparizione della vettura dell’assicuratore.
Dopo aver incassato la somma di denaro a titolo di indennizzo, senza quindi segnalare il ritrovamento della vettura, l’avrebbero rivenduta ad altri falsificandone i documenti.
Una cinquantina gli episodi contestati tra il 2010 e il 2013
Gli episodi contestati sarebbero stati una cinquantina in un periodo compreso tra il 2010 e il 2013. A capo del gruppo per la pubblica accusa ci sarebbe stato Salvatore Mendola, difeso dagli avvocati Antonio Gargano e Raffaele Bonsignore, per il quale era stata chiesta una condanna a nove anni e sei mesi di reclusione.
I legali di Mendola hanno dimostrato come non sia stato provato nel corso del dibattimento da parte dell’accusa che vi fosse un accordo stabile e duraturo tra gli imputati, quindi uno dei requisiti su ci si basa l’associazione per delinquere e che “a differenza di quanto enunciato anche nel capo di imputazione in cui si afferma che gli imputati sono legati tra loro da rapporti di parentela, conoscenza diretta ed abituale, frequentazione, non ha neppure provato reciproci, stabili e duraturi rapporti tra gli stessi”.
Salvatore Mendola lo scorso aprile è finito ai domiciliari in quanto coinvolto, assieme al figlio Francesco e altri sei indagati, in un’inchiesta della finanza su presunte truffe assicurative.
Le assoluzioni
Assolto nel merito Angelo Donzelli, difeso dall’avvocato Cinzia Pecoraro. Scagionati anche Vincenzo Teresi, Vito Riccobono, Filippo e Francesco Mendola, Mario La Vardera, Domenica Gambino, Fabrizio Alfano, Vincenzo Meglienti, Benedetto Gambino, Serena Bonfardino, Carmelo Cangemi e Fabrizio Sciascia.
Gli imputati sono stati difesi, tra gli altri, dagli avvocati Salvino Pantuso, Vincenzo Giambruno, Giuseppe Serio e Laila Trumbadore, Carmelo Ferrara, Giovanni Infranca, Melchiorre Piscitello, Loredana Alicata, Giuseppe Di Cesare e Giuliana Vitello.
Vittima inconsapevole un centenario calabrese. Coinvolti un direttore delle Poste e un dipendente di banca. Sequestrati beni per 650mila euro
Militari della Compagnia di Martina Franca hanno eseguito un’ordinanza di applicazione di misure cautelari, una delle quali in carcere e sette ai domiciliari, nei confronti di 8 persone responsabili di una truffa in danno di un uomo centenario residente in Calabria.
Il provvedimento, emesso dal gip del Tribunale di Taranto, rappresenta l’epilogo di indagini coordinate efficacemente dalla Procura della Repubblica jonica sul conto di una persona residente in provincia di Bari. Quest’ultima, producendo falsa documentazione, avrebbe aperto un conto corrente presso un Ufficio Postale della provincia di Taranto a nome della vittima centenaria, ignara di ciò, utilizzando sue firme falsificate che sarebbero state apposte su una serie di atti al fine di poter riscuotere illecitamente polizze assicurative sulla vita a lei intestate per un valore di 650 mila euro.
L’importo di tali polizze sarebbe poi stato subito suddiviso e veicolato su altri conti correnti intestati a persone pluripregiudicate, originarie della provincia barese, le quali, a loro volta, avrebbero effettuato ulteriori bonifici bancari in favore di ulteriori soggetti, anche su conti accesi presso istituti di paesi esteri.
Tale illecita attività sarebbe stata posta in essere grazie anche al coinvolgimento del direttore del predetto Ufficio Postale nonché di un dipendente bancario dell’istituto di credito presso il quale erano state poste in essere le polizze assicurative.
Il provvedimento giudiziario adottato ha disposto altresì il sequestro preventivo di beni e disponibilità finanziarie facenti capo alle suindicate persone, fino alla concorrenza dell’importo di 650 mila euro.
Si procede per le ipotesi di reato di truffa, ricettazione, riciclaggio e auto-riciclaggio nell’ambito del procedimento penale che pende nella fase delle indagini preliminari. Per il principio di presunzione di innocenza, la responsabilità delle persone sottoposte ad indagini sarà definitivamente accertata solo dove interverrà sentenza irrevocabile di condanna.
L’operazione, resa possibile grazie all’incisivo impulso della Procura di Taranto nonché al proficuo scambio informativo con gli organi collaterali di diversi paesi esteri, attuato tramite il II Reparto del Comando Generale, testimonia il costante impegno della Fiamme Gialle tarantine nel salvaguardare la sicurezza economico-finanziaria dei cittadini ed in particolare di quelli più vulnerabili, spesso facili prede di persone senza scrupoli.
La madre di una delle tre vittime della cascina fatta esplodere per riscuotere l'assicurazione: "Fatta giustizia ma mio figlio non tornerà"
La Corte d'Appello di Torino ha accolto la richiesta di concordato per il patteggiamento e ha condannato a 27 anni Gianni Vincenti e a 26 anni e 11 mesi Antonella Patrucco, accusati di omicidio volontario con dolo eventuale per la morte dei tre vigili del fuoco, Matteo Gastaldo, Marco Triches e Antonio Candido, uccisi nell'esplosione della loro cascina a Quargnento nell'Alessandrino, il 5 novembre del 2019.
Gli avvocati della coppia, Gianluca Orlando e Fulvio Violo per Vincenti, Caterina Brambilla e Giacomo Gardella per Patrucco, avevano fatto richiesta di procedere ad un concordato per riunire tutte le imputazioni a loro carico e che prevedeva oltre al patteggiamento la rinuncia al ricorso in Cassazione. I coniugi erano stati condannati a 30 anni in primo grado dalla Corte d'Assise di Alessandria.
Gli imputati
Nei loro confronti poi erano state emesse altre due condanne per reati minori: quattro anni ad entrambi per truffa all'assicurazione, crollo e lesioni per i tre soccorritori rimasti feriti, sei mesi a Vincenti per calunnia nei confronti di un vicino di casa e un anno e tre mesi per un'altra truffa assicurativa la cui sentenza era arrivata ad aprile.
"Questa sentenza ci fa giustizia. Ma è sempre poco perché nessuno sentenza potrà darci indietro i nostri figli". Così Maria Stella Ielo, madre di Antonio 'Nino' Candido, uno dei tre vigili del fuoco morti nella strage di Quargnento, dopo la sentenza della Corte d'Appello di Torino.
Le vittime
Secondo la Maria Stella Ielo la coppia sapeva che ci sarebbe stata una seconda esplosione nella loro cascina "ma non hanno fatto nulla per proteggere i nostri figli". "Sarebbe bastata una telefonata e non saremmo qua - dice la madre di Candido - Le nostre vite sono state distrutte e i sogni dei nostri figli sono stati infranti. Sicuramente anche le vite dei Vincenti sono cambiate, però non è certo colpa nostra".
La sentenza mette la parola fine a una vicenda cominciata tre anni e mezzo fa. È da poco passata la mezzanotte a Quargnento, piccolo comune dell'Alessandrino, quando nella notte tra il 4 e 5 novembre 2019, all'interno di una cascina disabitata, si verifica un'esplosione. I vicini chiamano i vigili del fuoco che poco dopo arrivano sul posto con i carabinieri. Il peggio però si verifica un'ora e mezza più tardi, all'1.32: una deflagrazione più devastante fa crollare gran parte della struttura. Sotto le macerie perdono la vita tre vigili del fuoco, Antonino Candido, Marco Triches e Matteo Gastaldo. Il caposquadra dei pompieri, Giuliano Dodero e un altro vigile restano feriti insieme a un carabiniere.
Immediate scattano le indagini sulla tragedia, gli investigatori sentono decine di testimoni, tra cui il proprietario della cascina, Giovanni Vincenti, che prima indirizza i sospetti su un vicino di casa, poi, il giorno dei funerali di Stato delle vittime, incastrato dal ritrovamento, nella sua camera da letto, del libretto di istruzioni dei due timer usati per innescare l'esplosione, ammette le sue responsabilità raccontando di averlo fatto per riscuotere i soldi dell'assicurazione.
Qualche mese dopo, a febbraio 2020, la procura chiede l'arresto anche per la moglie di Vincenti, Antonella Patrucco, misura che arriva il 24 giugno 2020 dopo che la Cassazione respinge l'impugnazione dei legali della donna. Un mese dopo la coppia viene condannata in abbreviato a quattro anni per truffa all'assicurazione, crollo e lesioni, sentenza che arriva dopo che il processo a carico dei due era stato diviso in due tronconi, quello per reati minori e quello per la morte dei tre vigili del fuoco per la quale Vincenti e Patrucco rispondono di omicidio volontario.
L'11 settembre dello stesso anno in Corte d'assise ad Alessandria comincia il processo per l'accusa più grave che, saltando tutta la parte dibattimentale, si conclude l'8 febbraio 2021 con la condanna dei coniugi Vincenti, lui detenuto in carcere ad Ivrea, lei a Vercelli, a trent'anni di reclusione. Il mese successivo, la Corte d'appello di Torino conferma per i due la condanna a quattro anni per i reati minori. A Vincenti viene riconosciuto anche la calunnia nei confronti del vicino di casa che gli costa sei mesi di reclusione in più.
Oggi, dunque, con la sentenza della Corte d'assise d'appello di Torino si è messa la parola fine: i giudici, accettando la richiesta di concordato presentata dai legali dei due imputati hanno riformulato la sentenza di primo grado condannando Vincenti a 27 anni e Patrucco a 26 anni e 11 mesi. Nel verdetto sono riuniti anche i reati minori. I due imputati inoltre hanno rinunciato al ricorso in Cassazione.
"La sanzione finale è sicuramente rapportata alla gravità dei fatti". Lo sostiene Fulvio Violo, avvocato di Giovanni Vincenti: "Il concordato - aggiunge - ha la valenza di cercare di rapportare la sanzione alla gravità del fatto. Purtroppo questo è stato un tragico equivoco, perché a monte non c'era alcuna intenzione di ledere ad alcuno: è degenerato, quindi giustamente Vincenti e Patrucco si sono assunti le loro responsabilità fino in fondo e penso che a questo punto possano essere soddisfatti tutti"
"La mia assistita - ha spiegato Giacomo Gardella, legale di Antonella Patrucco - continua a ribadire che non aveva assolutamente consapevolezza, se non in maniera generica, di quelle che erano le intenzioni del marito, ma non c'era in ogni caso anche da parte di lui l'intenzione di fare male ad alcuno. La scelta del concordato è stata dolorosa come dolorosa è tutta l'intera vicenda".
Quattro i reati di truffa assicurativa contestati tra agosto e settembre 2019. Ecco la sentenza del gup del tribunale di Milano
Il GUP del Tribunale di Milano ha assolto dall’accusa di frode assicurativa in concorso un cosentino, mentre per gli altri si procederà al giudizio. Si chiude così una vicenda di cronaca che ha visto imputato, con l’accusa di essere uno degli autori facente parte di un gruppo di persone dedite alle truffe assicurative, un commerciante di Cosenza. Quattro i reati contestati secondo l’accusa avvenuti tutti in Cosenza e nell’hinterland, tra agosto e settembre 2019.
A tutti gli imputati era contestato di avere messo in atto un sistema di truffa perpetrato attraverso la denuncia di numerosi sinistri mai avvenuti e recanti a supporto documentazione falsa, nonché l’utilizzo di artifici finalizzati all’aggravamento di lesioni e quindi a maggiorare artificiosamente l’indennizzo richiesto in danno delle assicurazioni. L’assicurazione aveva anche nominato un investigatore, il quale aveva fornito alla compagnia assicurativa una copiosa documentazione di riscontro dalla quale poi è partita la querela ed il procedimento penale.
L’imputato, incensurato, si era sin dall’inizio professato innocente. Lo stesso aveva fornito agli investigatori della Compagnia assicurativa anche la propria versione dei fatti, oltre che certificazione medica, ritenuta dalla Procura contraddittoria e non veritiera, da qui l’imputazione.
Secondo gli Uffici di Procura, gli indizi erano rappresentati oltre che da divergenti dichiarazioni tra gli indagati sugli stessi fatti anche da divergenze sul traffico satellitare rispetto alle dinamiche denunciate dei sinistri nelle richieste di risarcimento formulate all’assicurazione. Altri indizi venivano rinvenuti in scatti fotografici pubblicati su Facebook dai quali emergevano, secondo l’accusa, una serie di indizi a carico dell’imputato.
L’avvocato Andrea Trevisan del foro di Cosenza, che ha assistito il commerciante, che ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato, ha sempre sostenuto che gli indizi a carico di G. A. fossero assolutamente non idonei a formulare una sentenza di condanna anche a seguito delle investigazioni difensive svolte e si è detto soddisfatto per la decisione del GUP che ha fatto proprie le argomentazioni prospettate dalla difesa ed ha assolto l’imputato per tutti e quattro i reati allo stesso contestati: in particolare il Gup ha assolto l’imputato con la formula “per non aver commesso il fatto” per reati contestati nel settembre del 2019 e “perché il fatto non sussiste” per il reato contestato nell’agosto del 2019.
Il giudice ha inflitto pene tra i 2 anni e 2 mesi ed 1 anno nei confronti degli imputati
Otto condanne. Sono quelle pronunciate dal giudice Alessandro De Santis nei confronti di altrettanti imputati accusati di truffa ai danni delle assicurazioni auto.
Il giudice ha inflitto 1 anno per Vincenzo Capobianco, 22enne di Santa Maria Capua Vetere; 2 anni e due mesi per Alessio Fusco, 22enne di Capua; 1 anno e 6 mesi per Crescenzo Bello, 43enne di Sant'Arpino; 1 anno e 6 mesi per Pasquale Caserta, 22enne di Capua; 1 anno e 6 mesi per Giuseppe Monte, 26enne di Grazzanise; 1 anno e 6 mesi per David Lazlo Suciu; 2 anni per Alberto Grimaldi, 22enne di Capua; 2 anni per Carlo Cantelli, 56enne di Casal di Principe. Per tutti - ade eccezione di Fusco, Grimaldi e Cantelli - il giudice ha disposto la sospensione della pena. Disposto il risarcimento dei danni nei confronti delle assicurazioni truffate, Axa e Generali, quest'ultima costituitasi parte civile con l'avvocato Lucia Piscitelli. Nel collegio difensivo gli avvocati Massimiliano Di Fuccia, Mirella Baldascino, Olimpia Rubino e Gianfranco Carbone.
Secondo quanto accertato dagli inquirenti, le finte vittime degli incidenti stradali si procuravano ferite, facendosi picchiare anche con mazze di ferro, e subito dopo si recavano al pronto soccorso per farsi refertare e consegnare successivamente l’intero incartamento ai legali, i quali inviano le richieste di danno alla compagnia assicurativa.
Tredici imputati, quasi tutti napoletani, sono accusati di aver denunciato incidenti mai accaduti e per farsi liquidare dalla compagnia trentina avrebbero utilizzato anche falsi referti medici
TRENTO. Nel vasto "campionario" delle truffe ai danni delle assicurazioni, c'è chi si era specializzato in falsi investimenti di pedoni sulle strisce. Ma i furbetti della frode - 13 persone quasi tutte residenti in provincia di Napoli - sono stati smascherati.
Qualcuno è uscito dal procedimento penale patteggiando la pena, la maggioranza ha preferito affrontare il processo in Tribunale a Trento.
Le accuse contestate sono fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e falsità materiale commessa dal privato.
Il capo di imputazione elenca 4 diversi episodi di quella che secondo la procura era una frode ai danni di Itas Mutua Assicurazioni (ma nel fascicolo sono elencate molti altri episodi commessi dagli stessi soggetti ai danni di altre compagnie assicurative in altre regioni).
«In concorso tra loro - ha scritto il pm - denunciavano un sinistro stradale inesistente asseritamente avvenuto mediante investimento su strisce pedonali in Torre del Greco alle 14 del 27 settembre 2013 predisponendo tre falsi referti dell'Ospedale civile di Bosco Trecase (Napoli) con la data del 27 settembre 2013 e la falsa firma del medico dottor (omissis), con l'aggravante di aver conseguito l'intento mediante emissione di sentenza di condanna di Itas al risarcimento».
Investimenti pedonali sulle strisce fasulli ai danni di Itas sarebbero stati commessi in almeno altre tre occasioni.
Il capo di imputazione cita l'investimento inesistente, asseritamente avvenuto il 5 agosto 2011 alle ore 11 a Pollena Trocchia (Napoli): l'investimento del 17 marzo 2013 accaduto a San Sebastiano al Vesuvio; infine un altro investimento considerato fasullo sarebbe accaduto il 30 aprile 2013 in un attraversamento pedonale a Torre del Greco.
Per ogni sinistro i truffatori si facevano liquidare come risarcimento cifre rilevanti.
Per frenare il malcostume degli incidenti falsi o gonfiati l'anno scorso Itas e procura della Repubblica di Trento hanno siglato un accordo
«L'obiettivo della compagnia assicurativa - scriveva in una nota Itas Mutua - è agevolare lo scambio di informazioni su episodi e circostanze di rilievo penale per intervenire in modo efficace e tempestivo».
Per tutte le compagnie assicurative le frodi sono un cancro: Itas, nel 2021 ha presentato su tutto il territorio nazionale in totale 62 denunce. All’Unità antifrode sinistri di Itas è affidato il compito di contrastare il fenomeno delle frodi assicurative. Le tipologie sono diverse: sinistri stradali simulati, incendi dolosi, infortuni avvenuti con dinamiche diverse da quelle denunciate.
Per gli incidenti stradali simulati Itas dispone di strumenti statistici e tecnici.
Chi ha inventato un sinistro e gli è andata bene spesso si fa ingolosire e ci riprova.
In questo caso l'archivio antifrode nazionale può fornire dati importanti per capire se ci sono anomalie.
Inoltre c'è l'esperienza dei liquidatori che vedono migliaia di sinistri e hanno l'occhio allenato per capire se la dinamica denunciata è compatibile con i danni riportati dal veicolo. Inoltre ci sono i periti che in base ai danni alle lamiere sono in grado di ricostruire come sono andate le cose.
Il datore può, in alternativa al licenziamento, congelare il rapporto di lavoro senza pagare lo stipendio al dipendente per costringerlo a dimettersi?
Ipotizziamo il caso di un dipendente che non si presenti sul posto di lavoro senza inviare certificato medico o altre giustificazioni. Il datore di lavoro, come noto, potrebbe attivare la sanzione disciplinare che porterebbe, nei casi più gravi, al licenziamento. Ma non è costretto a farlo. Del resto, come noto, il licenziamento pone non solo il rischio di una contestazione da parte del dipendente ma anche l’obbligo di corrispondere il ticket Naspi allo Stato. Di qui la domanda: si può sospendere un lavoratore assente, senza retribuzione?
In altri termini, in caso di assenza ingiustificata del dipendente, può il datore di lavoro limitarsi alla contestazione dell’infrazione, senza dare seguito al licenziamento, mantenendo il rapporto di lavoro “congelato” fino a quando il lavoratore non decida se rientrare al lavoro o formalizzare le dimissioni?
Sospensione del lavoratore senza retribuzione: quando?
Tra le sanzioni disciplinari che il datore di lavoro può adottare nei confronti del dipendente colpevole di illeciti disciplinari – tra cui, appunto, l’assenza ingiustificata – vi sono l’ammonizione verbale (che non implica alcun procedimento di contestazione preventivo), l’ammonizione scritta, la multa (con trattenuta in busta paga fino a massimo 4 ore di retribuzione base), il trasferimento e la sospensione. In ultimo vi è la sanzione più grave, il licenziamento.
La sospensione disciplinare dal servizio comporta necessariamente l’interruzione della corresponsione della retribuzione per l’intera sua durata, che non può comunque eccedere i 10 giorni previsti dalla legge, salvo diversa previsione contenuta nel contratto collettivo nazionale di lavoro.
Differenza tra sospensione dal lavoro e sospensione cautelare
La sospensione disciplinare non va confusa con la «sospensione cautelare». La sospensione cautelare non è infatti una sanzione disciplinare ma un provvedimento che viene emesso in via provvisoria e come forma di autotutela da parte del datore di lavoro, nel momento stesso in cui viene contestato l’addebito al lavoratore. Questi viene così “sospeso” in via cautelare dalla sua attività quando l’illecito contestatogli è incompatibile con la sua presenza sul luogo di lavoro.
La sospensione cautelare non è un provvedimento disciplinare e non comporta la sospensione della retribuzione, salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla disciplina legale o negoziale del rapporto. In quest’ultimo caso, la durata della sospensione non retribuita dipende dall’esito del procedimento disciplinare:
- se si conclude con una sanzione conservativa, la sospensione della retribuzione non può superare i 10 giorni (e, quindi, i giorni eccedenti devono essere retribuiti), perché non può avere effetti più ampi della sospensione disciplinare;
- se si conclude con il licenziamento, la sospensione può protrarsi senza retribuzione per tutto il tempo necessario alla verifica ed il rapporto deve considerarsi risolto retroattivamente, a far data dal momento della sospensione stessa.
Il datore di lavoro può congelare il rapporto di lavoro sospendendo la retribuzione?
La sanzione disciplinare che può scattare in caso di assenza ingiustificata deve essere proporzionata alla violazione commessa dal dipendente. E pertanto può spingersi sino al licenziamento solo nei casi più gravi, quando ad esempio la stessa è volontaria, o si protrae per più giorni e il dipendente non risponde ai richiami scritti del datore o quando la sua mansione è particolarmente delicata e necessaria.
Ciò non toglie però che il datore possa adottare un provvedimento meno severo come appunto la sospensione. Difatti, in caso di assenza ingiustificata, il datore può limitarsi a non corrispondere la retribuzione, a termini dell’articolo 1460 del Codice civile, secondo cui nei contratti con prestazioni corrispettive (tra i quali è compreso il contratto di lavoro subordinato), ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altro non adempie alla sua o non offre di adempiere contemporaneamente la propria prestazione, salvo che il rifiuto sia contrario alla buona fede. È ciò che tecnicamente si chiama eccezione di inadempimento.
La Cassazione, nel riconoscere l’operatività dell’eccezione di inadempimento nell’ambito del rapporto di lavoro, ha escluso che il datore possa reagire alla inadempienza del lavoratore soltanto con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento; ciò che deve essere qui confermato, tenuto conto che il recesso per giustificato motivo o per giusta causa costituisce una facoltà dell’azienda, la quale tuttavia, ove per qualsivoglia motivo non ritenga di ricorrervi, quand’anche ne sussistano i presupposti, non per questo può ritenersi incondizionatamente tenuta a pagare lo stipendio, particolarmente laddove l’inadempimento del lavoratore sia di gravità tale da far venir meno l’equilibrio tra le due prestazioni.
In sintesi si può dire che, oltre alle tradizionali sanzioni disciplinari, in presenza di una assenza ingiustificata, il datore di lavoro può congelare il rapporto di lavoro del dipendente ossia, pur senza licenziarlo, non pagargli lo stipendio in attesa che questi decida se dimettersi o ritornare sul posto di lavoro.
Singolare e non condivisibile sentenza del Giudice di Pace di Rodi G.co (FG) che ha riconosciuto un concorso di colpa del danneggiato ritenendo che chi scende dal marciapiede debba adottare un'attenzione particolare
Chi scende dal marciapiede deve adottare un'attenzione particolare, verificando dove pone il piede anche per la presenza dell'erba. Così il Giudice di pace di Rodi G.co riconoscendo un concorso di colpa del danneggiato nella misura del 70%.
I fatti
Nel centro abitato di un comune garganico, una persona, mentre stava per scendere dal marciapiede, cadeva a terra a causa della presenza di una crepatura, non segnata né visibile, essendo ricoperta di erba, né prevedibile.
A causa della caduta l'utente riportava lesioni.
Attenzione particolare nello scendere da un marciapiede
Attenzione particolare nello scendere da un marciapiede, controllando la presenza di pericoli sotto l'erba, secondo il Giudice di Pace di Rodi G.co.
Il Giudice di Pace di Rodi G.co (FG) ha riconosciuto un concorso di colpa del danneggiato, nella misura del 70%, ritenendo che chi scende dal marciapiede debba adottare un'attenzione particolare, verificando dove pone il piede anche per la presenza dell'erba.
Secondo il giudice onorario, quindi, una persona che scende da un marciapiede dovrebbe adottare una diligenza superiore rispetto a quella normalmente richiesta, pur in presenza di una situazione di pericolo occulto.
Il giudice non togato ha ritenuto che il pedone aveva l'obbligo di verificare dove poneva il piede anche per la presenza dell'erba.
In pratica, seguendo il citato ragionamento, l'utente che scende da un marciapiede dovrebbe controllare se sotto l'erba sono presenti crepature.
Diligenza superiore a quella del bonus pater familias
La non condivisibile e singolare sentenza del Giudice di Pace pugliese impone all'utente della strada l'adozione di una diligenza superiore rispetto a quella media del bonus pater familias, superando il consolidato orientamento giurisprudenziale, anche di legittimità, che ritiene responsabile la pubblica amministrazione in presenza di una situazione di pericolo occulto, non segnalata, non visibile e non prevedibile.
Il giudice non togato, però, non ha spiegato per quale motivo chi scende dal marciapiede, nonostante la presenza di un pericolo occulto, dovrebbe avere "un'attenzione particolare", verificando addirittura la parte sottostante all'erba.
La parola, adesso, passerà al Giudice d'appello.
Con l'installazione di eco-compattatori presso le strutture commerciali si introduce un nuovo canale di raccolta vicino al consumatore, garantendo la tracciabilità dei materiali raccolti
Packaging, l'accordo triennale
Si torna a parlare di packaging perché dal gennaio 2023 sull'etichetta dei cibi dovrà essere indicato il tipo di riciclo dell'involucro. Comieco, Ace e Federdistribuzione siglano un accordo per estendere la raccolta differenziata degli imballaggi poliaccoppiati per liquidi nei punti vendita della grande distribuzione. Come chiarisce un comunicato Comieco che insieme ad ACE Italia (The Alliance for Beverage Cartons and the Environment), Federdistribuzione ha siglato un accordo triennale, per promuovere un nuovo sistema di raccolta differenziata e di avvio al riciclo degli imballaggi compositi a prevalenza carta per liquidi alimentari (utilizzati per contenere il latte, l'acqua, succhi di frutta e bevande non gasate, ma anche altri alimenti), attraverso il posizionamento di eco-compattatori automatizzati presso punti vendita della Distribuzione Moderna.
Packaging, obiettivi comunitari
In linea con gli obiettivi comunitari di riduzione dei rifiuti avviati a discarica e di circolarità della filiera agroalimentare, l'accordo prevede di potenziare quantitativamente e qualitativamente la raccolta differenziata e il riciclo degli imballaggi in poliaccoppiato per liquidi. Comieco, Federdistribuzione e ACE collaboreranno a far conoscere il progetto presso i consumatori per assicurarsi una partecipazione diffusa sul territorio e mettere in evidenza la valenza ambientale dell'iniziativa.
Packaging, il progetto
L'accodo stabilisce che, previa intesa con il Comune, Comieco fornisca in comodato d'uso gratuito alle imprese aderenti a Federdistribuzione che parteciperanno al progetto gli appositi eco-compattatori automatizzati, presso cui i consumatori potranno conferire i propri contenitori per liquidi post-consumo. Il Consorzio curerà anche la logistica dei contenitori raccolti verso gli impianti di trattamento, garantendone la piena tracciabilità e il riciclo. L'iniziativa si propone di avvicinare i consumatori alla cultura della raccolta differenziata di questi imballaggi, attraverso una modalità di conferimento semplice e immediata, che si affiancherà ai sistemi locali di raccolta differenziata tradizionali già diffusi sul territorio.
Sempre in relazione all'accordo, Federdistribuzione si impegna a promuovere il progetto presso le imprese associate per la messa a disposizione di spazi idonei nelle strutture commerciali in cui installare e collegare gli eco-compattatori forniti da Comieco, collaborando nella gestione operativa secondo modalità concordate con il Consorzio.
Testamento olografo tramite video pubblicato su una piattaforma online: che validità ha?
Semmai volessi fare testamento ma, per rendere indelebili le tue volontà ed evitarne la dispersione o l’alterazione, volessi realizzare un file video per poi pubblicarlo su una piattaforma online, che valore avrebbe? Si può fare testamento su YouTube?
La questione del testamento tramite tecnologie digitali è al centro di numerosi dibattiti. La legge ha cercato di rimanere al passo con le mutate tecnologie informatiche. Lo ha fatto dando prima valore legale alla firma digitale, strumento che, come noto, garantisce l’identità del sottoscrittore del documento digitale al pari di come potrebbe essere l’autentica notarile. Poi, è intervenuta la Pec, la cosiddetta «posta elettronica certificata» che invece è un’e-mail che, oltre a fornire la data certa dell’invio del documento e del ricevimento da parte del suo destinatario, attesta anche l’esatto contenuto del messaggio.
Tuttavia, nessuna delle norme che consentono di adattare le nuove tecnologie ai documenti giuridici ha mai previsto un testamento realizzato tramite computer. Cerchiamo allora di comprendere se si può fare un testamento su YouTube.
Si può fare un testamento in casa?
La legge prevede la possibilità di realizzare un testamento “casalingo”, senza cioè bisogno del notaio. È il cosiddetto testamento olografo, che non necessità di null’altro se non la scrittura del foglio a mano del suo autore, la chiarezza del contenuto, la data e la firma al termine del documento.
Il testamento viene di norma custodito dallo stesso testatore o da un terzo da questi designato (anche un notaio). Sono possibili anche più copie, ma tutte devono essere in realtà degli originali, ossia dei documenti non fotocopiati ma scritti ex novo, datati e firmati, del medesimo contenuto.
Che valore ha un testamento al computer?
Proprio perché il testamento olografo deve essere fatto in casa, non è possibile redigere lo stesso tramite ricorso a un computer e una stampante, neanche se il foglio dovesse poi essere sottoscritto a mano e la firma autenticata dal notaio. Questo perché la concezione del testamento olografo, secondo l’intenzione del legislatore, è ancora quella di garantire la sua forma documentale, realizzata di pugno dal suo autore. Del resto, è la grafia la massima espressione dell’autenticità dello scritto: essa garantisce la possibilità di risalire inequivocabilmente al suo autore grazie a una perizia calligrafica, impedendo falsificazioni e alterazioni. Ragion per cui un testamento olografo senza l’«olografia», ossia la scrittura di pugno del suo autore, è nullo.
Che valore ha un testamento video?
Proprio per quanto si è appena detto, la legge non consente di realizzare neanche un testamento tramite video, per quanto non possano esservi incertezze sull’identità dell’autore e il file sia più difficilmente alterabile rispetto alla firma posta a tergo di una stampa fatta tramite computer.
Si può fare testamento su YouTube?
A migliorare le cose non basta neanche il fatto che il file video venga caricato su una piattaforma online come YouTube con tanto di certificazione, da parte della stessa, della data di creazione e dell’autore del file. Quindi, comunicare le proprie ultime volontà con un video su YouTube visibile a tutti – quindi indicizzato – o anche non “in elenco” (e quindi visibile solo a chi conosce l’url), non consente di ritenere di essere in presenza di un testamento olografo. Sarà quindi rimesso alla spontanea volontà degli eredi la volontà se dare attuazione o meno alla volontà espressa nel video. Ma, poiché la stessa non ha valore, qualora dovessero sorgere contestazioni tra gli eredi, si applicheranno le norme relative alla successione legittima, quella cioè che si applica in assenza di testamento o con testamento nullo o annullato.
Perché è importante comprendere in quale luogo si apre la successione: la competenza territoriale del giudice.
Con il termine successione si indica generalmente il passaggio di titolarità in uno o più rapporti giuridici tra un soggetto (detto autore o dante causa) in favore di un altro (denominato successore o avente causa). La successione può avvenire per varie cause: ad esempio la vendita, la donazione o la successione per causa di morte. Quest’ultima è il fenomeno che si viene a verificare quando un soggetto decede e, al suo posto, i beni passano agli eredi. È interessante comprendere dove si apre la successione in quanto da ciò dipendono alcune importanti conseguenze come, ad esempio, la competenza del tribunale nel caso in cui dovessero insorgere liti tra gli eredi del cosiddetto de cuius.
Cosa si intende per de cuius? Nel linguaggio giuridico, per evitare di ricorrere al termine defunto o morto ecc., si ricorre al termine latino de cuius che in sostanza significa «colui della cui eredità si tratta». Un altro sinonimo che viene usato e che potrebbe determinare confusione con il linguaggio comune è “ereditando”, che ugualmente indica il de cuius.
Ma procediamo con ordine e vediamo innanzitutto dove si apre la successione.
Luogo di apertura della successione
Quando si parla di apertura della successione si intende l’esatto momento in cui il de cuius muore. È in questo momento che si verifica infatti il passaggio di proprietà dei suoi beni in favore degli eredi. In realtà, il passaggio sarà ufficializzato solo con la loro accettazione dell’eredità (che può avvenire entro 10 anni), ma tale accettazione ha valore retroattivo, per cui esplica effetti a partire dall’esatto momento del decesso del precedente titolare, in modo che vi sia continuità nella proprietà del bene.
La successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto. Il domicilio deve essere inteso quale luogo nel quale il defunto aveva stabilito il centro principale dei propri affari e interessi.
Il luogo di apertura della successione determina il foro competente per le cause ereditarie e per i procedimenti successori.
Come chiarito dalla Cassazione, «la determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita con riferimento al luogo di apertura della successione, in cui il de cuius aveva al momento della morte l’ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione la relazione tra la persona ed il luogo che essa ha scelto come centro dei propri affari ed interessi, prescindendosi dalla dimora o dalla presenza effettiva del de cuius in detto luogo».
Perché è importante sapere dove si apre la successione?
Il luogo di apertura della successione non rileva solo ai fini della competenza territoriale del giudice in caso di controversie. Essa determina anche:
- la cancelleria del tribunale competente a ricevere la dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (art. 484 c.c.) o la rinunzia alla stessa (art. 519 c.c.);
- il tribunale competente alla nomina di curatore nel caso di eredità beneficiata quando l’erede rilasci i beni ai creditori (art. 508 c.c.) o di eredità giacente (art. 528 c.c.);
- il tribunale competente ad ordinare la pubblicazione di un testamento olografo (art. 620 c.c.) o segreto (art. 621 c.c.);
- l’accettazione o la rinunzia alla nomina di esecutore testamentario (art. 702 c.c.);
- il tribunale competente ad autorizzare il chiamato alla vendita di beni facenti parte dell’eredità (art. 747 c.p.c.);
- il tribunale il cui presidente può disporre cauzioni a carico dell’erede o del legatario nei casi di legge (art. 751 c.p.c.) o surrogarsi al terzo o all’onerato che non abbia provveduto a determinare il beneficiario di disposizione a titolo particolare rimessa al suo arbitrio (art. 631 cod.civ.).
Dove si fanno le cause tra eredi?
Come detto, il luogo di apertura della successione rileva soprattutto per stabilire il giudice competente in caso di controversie e giudizi tra gli eredi. In particolare, il giudice del luogo dell’aperta successione è competente per tutte le cause fra coeredi, ivi comprese non solo quelle aventi ad oggetto diritti caduti in successione, ma anche le altre attinenti alla qualità di erede, tali cioè che la legittimazione attiva o passiva dei contendenti discenda necessariamente, e non occasionalmente, dalla sussistenza di tale qualità.
la Consulta ha già ammesso in passato che in presenza di malattie contagiose i soggetti possono essere isolati nelle loro abitazioni, in questi casi nessuna violazione della libertà personale, solo della libertà di circolazione
Quarantena obbligatoria Covid non viola la libertà personale
La Consulta, con la sentenza n. 127/2022 risponde in via definitiva al Tribunale penale di Reggio Calabria sulla illegittimità costituzionale delle norme punitive nei confronti dei soggetti che, in quarantena, lasciano la propria abitazione. Per la Corte esse non violano la libertà personale, ma solo quella di circolazione, come spiegato più diffusamente nella motivazione.
Illegittime le sanzioni per chi lascia la dimora se in quarantena
Il Tribunale di Reggio Calabria ha sollevato questioni di legittimità costituzionale su alcune disposizioni del decreto legge n. 33 del 2020, che contiene misure per limitare la diffusione del Covid-19. In particolare, ad essere censurate le norme contenenti sanzioni penali nei confronti di chi, risultato positivo al Covid e sottoposto alla quarantena obbligatoria, lasci la propria dimora o abitazione.
Per il Tribunale la quarantena obbligatoria incide non sulla libertà di circolazione dei cittadini (articolo 16 della Costituzione) ma sulla libertà personale (articolo 13 della Costituzione), pertanto, i relativi provvedimenti devono essere adottati dall'autorità giudiziaria
Come anticipato dall'Ufficio comunicazione e stampa, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni.
La quarantena obbligatoria e le relative sanzioni penali, così come regolate dalle disposizioni impugnate, "incidono sulla sola libertà di circolazione. Per la Consulta esse "non comportano alcuna coercizione fisica, sono disposte in via generale per motivi di sanità e si rivolgono a una indistinta pluralità di persone, accomunate dall'essere positive al virus trasmissibile ad altri per via aerea".
La Corte, ricorda che, con la sentenza n. 68 del 1964, aveva già rilevato che "i motivi di sanità che permettono alla legge, ai sensi dell'art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose."
Fatte queste e altre precisazioni, la Corte Costituzionale ritiene non fondata la questione di legittimità sollevata in quanto: "l'obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell'autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia."
Secondo la Cassazione, nulla si può pretendere se a causare il sinistro è il comportamento della vittima al volante.
Non sempre la famiglia di chi rimane vittima di un incidente mortale ha diritto al risarcimento. Può capitare anche che quando il decesso dell’automobilista avviene a causa di un sistema di protezione stradale in condizioni inadeguate non ci sia la possibilità di ottenere l’indennizzo. Il motivo lo ha spiegato la Cassazione in una recente sentenza in cui ricorda un fattore fondamentale: quando si verifica un sinistro, occorre andare a monte dei motivi che lo hanno provocato e non partire dalle conseguenze. In sostanza, la Suprema Corte ha spiegato, in caso di incidente mortale, quando non c’è il risarcimento.
Quei motivi a monte a cui fanno riferimento i giudici si possono riassumere in uno solo: l’atteggiamento del conducente al volante della sua auto. Di fronte a una condotta imprudente, sostiene la Cassazione, c’è poco da pretendere. Vediamo perché.
Le regole di comportamento del conducente
Una condotta sbagliata al volante, dunque, può far passare il conducente dalla parte del torto anche in caso di incidente mortale e di decesso provocato da un fattore esterno.
Il Codice della strada impone una serie di regole di comportamento che vanno sempre e comunque rispettate. Altrimenti, come sostiene la Cassazione nella sentenza in commento, c’è poco da pretendere.
L’articolo 141 del Codice, ad esempio, stabilisce che «è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione». Non solo: l’automobilista è tenuto a conservare sempre il controllo del veicolo che sta guidando. Ecco perché è sempre necessario moderare la velocità.
Ma non è solo il «piede pesante» sull’acceleratore quello che, in caso di incidente mortale, può negare il diritto al risarcimento. Il Codice obbliga anche ad allacciare sempre le cinture di sicurezza, ancor prima di avviare l’auto. Cinture che devono essere indossate anche dal passeggero e da chi occupa i sedili dietro.
E ancora: la sicurezza di tutti richiede, ad esempio, di non utilizzare i cellulari alla guida se non con auricolare o viva voce in modo da tenere sempre le mani sul volante; di non mettersi a messaggiare con il telefonino anche quando si è in coda; di non bere alcolici (o, almeno, di non esagerare per restare sotto la soglia consentita) prima di mettersi alla guida; di fermarsi ogni tanto durante i viaggi lunghi per non sottovalutare la stanchezza; di controllare che l’auto sia sempre in perfette condizioni di sicurezza (freni, pneumatici, luci, ecc.). E così via. Sembrano delle cose scontate, delle regole più dettate dal buon senso che dal Codice della strada. Eppure, sono le norme più disattese dagli automobilisti e, quindi, alla base della maggior parte degli incidenti stradali. Anche mortali.
Quando è negato il risarcimento in caso di incidente mortale
Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che non si ha diritto al risarcimento quando l’incidente mortale è stato causato dalla mancata prudenza del conducente, anche se il decesso è avvenuto per un fattore esterno a lui non imputabile.
La Suprema Corte, in sostanza, sottolinea la differenza tra la causa e la conseguenza del sinistro. Ed è la prima alla base del negato risarcimento.
La vicenda di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda il caso di un automobilista deceduto dopo che la sua auto era finita fuori strada e trafitta da un guard-rail divelto. La famiglia della vittima avrebbe voluto un risarcimento puntando il dito sull’Anas, proprietario della strada: a sentire i parenti, il loro congiunto «aveva perso il controllo del veicolo a causa di un dislivello esistente sul manto stradale ed era deceduto a causa del forte impatto dell’auto con un guard-rail che si era imprevedibilmente divelto per effetto dell’urto e si era infilato nell’abitacolo».
La Cassazione, invece, decide che il dito debba essere puntato altrove, cioè proprio sull’automobilista. E il ragionamento è semplice: se il conducente avesse rispettato il Codice della strada, l’incidente non sarebbe accaduto. Se fosse stato rispettato il limite di velocità, quel dislivello non avrebbe provocato l’incidente, dato che – come detto in precedenza – il Codice impone all’automobilista di conservare sempre il controllo del veicolo che sta guidando. Il guard-rail divelto, dunque, è stata la conseguenza del sinistro e non la causa, imputabile – secondo i giudici di legittimità – all’atteggiamento tenuto al volante dalla vittima e del mancato rispetto delle primordiali norme di sicurezza: oltre alla velocità eccessiva (come risulta dal verbale dei Carabinieri intervenuti sul posto), gli pneumatici erano in condizioni precarie e la cintura non era stata allacciata.
Se una persona fa una donazione di una casa, quando lui dovesse morire, il donatario erediterà anche i debiti?
La questione merita una più attenta riflessione perché sono stati confusi concetti tra loro differenti: quello della donazione e quello del legato. Facciamo un po’ di chiarezza sul punto.
Quando bisogna restituire le donazioni in vita?
Le donazioni fatte da una persona quando era ancora in vita possono essere contestate dagli eredi, dopo la sua morte e non oltre 10 anni da essa, solo se questi ha lasciato ai familiari più stretti una quota inferiore di quella loro riservata dalla legge (la cosiddetta «quota di legittima»).
Gli eredi che possono contestare la donazione sono chiamati «eredi legittimari» e sono unicamente il coniuge e i figli (o, in assenza dei figli, i genitori).
Se, dunque, uno degli eredi legittimari dovesse accorgersi che, alla divisione del patrimonio ereditario, la sua quota di legittima è stata lesa potrebbe mettere in discussione il testamento e le donazioni fatte dal defunto quando ancora era in vita. Sicché, il beneficiario della donazione dovrà restituire il bene che aveva ricevuto a suo tempo dal defunto.
Tale azione può, come detto, essere esercitata non già quando il donante è ancora in vita ma solo dopo la sua morte ed entro massimo 10 anni dall’apertura della successione. L’erede legittimario che assuma di essere stato leso dovrà però considerare le eventuali donazioni che anch’egli abbia ricevuto dal defunto prima che questi morisse, perché anche queste concorrono al calcolo della quota di legittima spettategli.
Chi risponde dei debiti del defunto?
A rispondere dei debiti del defunto sono solo i suoi eredi, ossia coloro che, chiamati alla successione, fanno la cosiddetta «accettazione dell’eredità». Prima dell’accettazione dell’eredità nessun familiare può essere oggetto delle pretese dei creditori del defunto.
Dall’erede bisogna distinguere la figura del legatario: colui cioè che non subentra in una quota dell’intero patrimonio del defunto ma che, col testamento, riceve solo uno specifico bene da questi. I legatari non rispondono dei debiti del defunto, benché abbiano comunque preso parte, in qualche modo, alla spartizione del relativo patrimonio. Ne rispondono solo se i creditori non siano riusciti a far valere le proprie pretese nei confronti degli eredi e pur sempre nei limiti del valore del bene ricevuto in legato.
Chi riceve una donazione risponde dei debiti del defunto?
Chi riceve una donazione non può mai rispondere dei debiti del defunto, in alcun caso. In questo è possibile ravvisare la profonda differenza tra l’istituzione di un erede o di un legatario da un lato e il beneficiario della donazione dall’altro.
Vero però è che se il donante ha eseguito la donazione in vita per sfuggire ai creditori ed evitare che questi potessero pignorare il bene in questione, tale trasferimento può essere revocato dai creditori stessi entro 5 cinque anni dalla trascrizione del rogito nei pubblici registri immobiliari. È la cosiddetta azione revocatoria. Ma una volta decorsi i cinque anni, la donazione si “solidifica”: diventa cioè definitiva e non comporta alcun rischio per il donatario.
Cosa rischia il donatario alla morte del donante?
Il donatario, alla morte del donante, rischia solo di subire l’azione di riduzione (o «lesione della legittima») intrapresa dagli eredi legittimari del defunto (coniuge, figli o genitori) nel caso in cui questi non abbia rispettato le relative quote di legittima. Ma non può mai subire un’azione di rivalsa da parte dei creditori o degli stessi eredi che, proprio in virtù di tale veste, si siano trovati a dover far fronte alle pretese dei creditori del defunto.
L'art 169 del Regolemento del Codice della Strada vieta di tenere accesi i semafori dalle 23.00 alle 7.00 fatte salve particolari condizioni di circolazione, spetta quindi alla PA provare le ragioni per cui i semafori erano accesi
La PA deve provare le ragioni per l'accensione notturna dei semafori
L'art. 169 del Regolamento del Codice della Strada dispone: "1. Il funzionamento degli impianti semaforici a tempi fissi è vietato dalle ore 23.00 alle ore 7.00; è consentito per quelli comandati automaticamente dai veicoli, per quelli "a richiesta" azionati dai pedoni e per quelli coordinati o a più programmi, in cui sia previsto uno specifico programma notturno con durata ridotta del ciclo semaforico. 2. Allorché si verificano particolari condizioni di circolazione, con flussi di traffico elevati, o presenza di sensi unici alternati, o lavori in corso e simili, è consentito il funzionamento degli impianti semaforici anche tra le ore 23.00 e le ore 7.00."
Alla luce di detta norma, se al conducente viene contestato il passaggio con il semaforo rosso proprio nelle ore notturne, poiché il funzionamento del semaforo è precluso, spetta al PA dimostrare la sussistenza di un programma apposito di accensione e le condizioni che lo giustificano.
Queste le precisazioni che hanno condotto il GdP di Pinerolo ad accogliere il ricorso di un automobilista (rappresentato dalla Globoconsumatori) e all'annullamento dei verbali notificati con la sentenza del 2 maggio 2022 .
Multe per passaggio con semaforo rosso
Un automobilista ricorre al Giudice di Pace di Pinerolo per contestare diversi verbali con i quali la PA competente gli contesta la violazione dell'art. 146 del Codice della Strada, che punisce il passaggio in presenza della luce semaforica rossa.
Nel ricorso il ricorrente fa presente che i rilevamenti sono stati effettuati nelle ore notturne, per cui il Comune era tenuto a dimostrare le ragioni per le quali i semafori fossero attivi anche in quelle ore, visto che l'art. 169 del Regolamento del Codice della Strada preclude l'accensione notturna dei semafori.
Semafori spenti di notte: alla PA provare se e perché erano accesi
Il Giudice di Pace accoglie il ricorso e annulla i verbali impugnati. La PA infatti non è riuscita a dimostrare gli elementi costitutivi della propria pretesa creditoria relativa alla sanzione irrogata, ossia l'infrazione e la regolarità del procedimento di irrogazione della sanzione.
Il ricorrente ha infatti eccepito che i rilevamenti sono stati effettuati durante le ore notturne e precisamente tra le ore 23.00 e le ore 7.00 , orario durante i quali il funzionamento del semaforo è vietata dall'art. 169 del Regolamento al Codice della Strada, a meno che non sussistano le condizioni particolari, indicate dalla norma.
Ha ragione il ricorrente quando afferma che la PA doveva dimostrar la presenza delle condizioni che la legittimavano a tenere accesi i semafori. La giurisprudenza infatti "è concorde nell'affermare che affinché l'accertamento possa considerarsi legittimo spetta alla PA l'onere di provare la ricorrenza delle condizioni indicate dai commi 1 e 2 dell'art. 169 Regolamento CDS, prova in difetto della quale la contestazione è illegittima ed il verbale non può che essere annullato"
Nel caso di specie non solo la PA non ha assolto al proprio onere probatorio, ma la stessa non ha neppure preso posizione sull'eccezione sollevata dal ricorrente, per cui il ricorso non può che essere accolto.
Obblighi, facoltà, limiti e orientamento giurisprudenziale della Cassazione sul segreto professionale dell'investigatore privato
Segreto professionale: definizione
L'argomento del segreto professionale è da sempre controverso, dibattuto e spesso sottovalutato, nonostante sia un diritto/dovere ben delineato. È necessario, innanzitutto, definire il segreto professionale. Questo è un obbligo normativo a carico di alcune figure professionali alle quali è fatto divieto di rivelare o comunicare informazioni di cui siano a conoscenza per motivi di lavoro, e per le quali è imposto uno specifico obbligo di segretezza.
Cos'è la segretezza?
È qualcosa di precluso alla conoscenza altrui dove, l'oggetto del segreto che non si intende riferire, accomunabile all'istituto del segreto professionale, può riguardare un fatto appreso o l'identità di un persona informata sui fatti.
Il segreto professionale è pertanto un ambito qualificante e riguardante solo alcuni soggetti, tra i quali gli investigatori privati autorizzati, che possono riservarsi la facoltà di non riferire a domande poste in sede processuale ed extra processuale che tendono a far rivelare circostanze e/o persone delle quali si è appresa notizia nell'esercizio della propria attività.
Segreto professionale: facoltà e limiti
Spetterà poi all'investigatore privato valutare se avvalersi o meno del segreto professionale, considerando che:
- il segreto professionale è un obbligo la cui violazione senza giusta causa è punita dall'art. 622 c.p.;
- l'investigatore privato autorizzato ha facoltà di non denunciare reati dei quali abbia avuto notizia nel corso delle propria attività (art. 334 bis c.p.p.);
- il Giudice ha comunque facoltà di procedere ad accertamenti qualora abbia motivo di dubitare della dichiarazione resa dall'investigatore privato (co. 2 art. 200 c.p.p.).
Con riferimento all'ultimo punto appena descritto è doveroso precisare che il segreto professionale non può essere utilizzato per nascondere la illecita modalità di acquisizione di un'informazione. Vale a dire che non è possibile celare nel segreto professionale la fonte che ha riferito una notizia confidenziale, se per acquisire quella determinata informazione è stato commesso un illecito.
Il comma 1, lettera b, dell'articolo 200 c.p.p. prevede che l'investigatore privato autorizzato non possa essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione della propria professione. Ma il problema si pone nel necessario bilanciamento tra il rispetto del segreto professionale, la tutela del diritto di difesa e il dovere civile di contribuire e collaborare all'amministrazione della giustizia nel far emergere la verità dei fatti.
Segreto professionale e divieto di testimoniare
Questo vuol dire che il riconoscimento del segreto professionale non determina il divieto di testimoniare, bensì ne stabilisce i limiti proprio nel bilanciamento degli interessi di tipo privatistico e pubblicistico di cui sopra, prevedendo una facoltà di astensione che non è generale ma trova la sua specifica nel singolo fatto e fonte.
In ambito civile è da considerarsi invece l'articolo 249 c.p.c. il quale afferma che "si applicano all'audizione dei testimoni le disposizioni degli articolo 200, 201, 202 codice di procedura penale relative alla facoltà di astensione dei testimoni".
La facoltà di astensione viene quindi attuata mediante una dichiarazione resa verbalmente in udienza quando il giudice ammonisce i testimoni ex art. 251 e, in ogni caso, non oltre l'inizio dell'esame testimoniale.
Il suggerimento potrebbe essere di anticipare questa fase e scrivere nella relazione investigativa, in premessa o nella descrizione dell'esito d'indagine, una dicitura specifica che richiami il segreto professionale.
La Cassazione sul segreto professionale dell'investigatore
In materia di segreto professionale riconosciuto all'investigatore privato in sede civile si è espressa anche la Corte di Cassazione occupandosi di un caso in cui un investigatore privato, rifiutatosi (in fase civile) di riferire il nominativo della propria fonte, si era ritrovato imputato in un processo penale per falsa testimonianza (ex art. 372 c.p.).
I Giudici della Suprema Corte hanno assolto l'investigatore ritenendo la scelta non punibile secondo l'art. 384 c.p., 2° comma, ai sensi del quale "la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione".
La Cassazione ha quindi stabilito che l'investigatore non è punibile, perché "non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere" (cfr. Cass. pen. sentenza n. 7387/2005).
Questa sentenza ha definitivamente sancito che gli investigatori privati possono esercitare il segreto professionale anche dinanzi al Giudice del Tribunale civile.
Dal 2005 ad oggi non è mai più stato messo in discussione, in sede civile o penale, il diritto/dovere dell'investigatore privato di avvalersi del segreto professionale.
Liceità dell'utilizzo del sistema GPS nel corso delle investigazioni private: irrilevanza penale e accortezze ai fini della privacy
L'investigatore privato e il GPS
La possibilità per un investigatore privato di indagare su una persona tramite un sistema di rilevamento GPS, al fine di "seguirla" e di ricostruirne gli spostamenti, ha avuto nel tempo notevoli mutamenti ed ancora oggi, purtroppo, è motivo di discussione.
L'utilizzo di questo sistema è strettamente connesso al tema della sorveglianza elettronica e, conseguentemente, ci costringe a diversi interrogativi.
Non vi è una specifica norma sul punto - ad eccezione di quanto previsto nel D.M. 269/10, con tutti i limiti esistenti in capo a un decreto ministeriale - e la giurisprudenza esistente si riferisce quasi esclusivamente all'utilizzo del GPS da parte della polizia giudiziaria.
Secondo i giudici della Suprema Corte, "seguire" una persona tramite un rilevatore GPS rientra tra le attività di investigazione atipiche assimilabili al pedinamento ed è perfettamente eseguibile (cfr. Cass. n. 9416/2010; Cass. n. 9667/2009; Cass. n. 15396/2008; Cass. n. 3017/2008). Vi è pertanto un orientamento giurisprudenziale consolidato favorevole, sebbene, questo venga applicato esclusivamente al settore dell'investigazione pubblica.
Irrilevanza penale
In tema di investigazione privata, il D.M. n. 269/2010 definisce l'attività di indagine in ambito privato come quella attività volta alla ricerca e alla individuazione di informazioni richieste dal privato cittadino, anche per la tutela di un diritto in sede giudiziaria, e che possono riguardare, tra l'altro, gli ambiti familiari, matrimoniali, patrimoniali e la ricerca di persone scomparse.
Tale DM, all'art. 5 comma 2, prevede espressamente che: "i soggetti autorizzati possono svolgere …. (omissis) …. attività di osservazione statica e dinamica (c.d. pedinamento) anche a mezzo di strumenti elettronici".
Ogni qualvolta, quindi, si colgano informazioni relative alla posizione di un veicolo posto sulla pubblica via, il pedinamento elettronico mediante l'utilizzo del GPS è pertanto perfettamente lecito. Ciò nonostante, potrebbe capitare di essere ugualmente denunciati per il reato di cui all'art. 615 bis c.p. (illecita interferenza nella vita privata).
Ma perché questo avviene? Molte volte per ignoranza normativa o talvolta per semplice dispetto da parte della persona che viene a conoscenza di essere stata oggetto di controllo e pedinamento.
L'articolo di legge 615 bis c.p. punisce chiunque si procuri notizie o immagini attinenti la vita privata di una persona mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora che si stiano svolgendo nei luoghi di privata dimora.
Il GPS non è uno strumento utile alla captazione visiva o sonora, e l'autovettura (anche se esistono sentenze contraddittorie) non è un luogo di privata dimora, ed è quindi abbastanza semplice convenire come qualsiasi denuncia sull'utilizzo del GPS da parte dell'investigatore privato sia solo un pretesto per arrecare fastidi, un'inutile perdita di tempo ed ovviamente di denaro.
Accortezze ai fini privacy
Quanto precede risponde, però, solo alla frequente domanda se l'utilizzo del GPS sia lecito o meno da un punto di vista penale.
Vi è però un altro aspetto da tenere in considerazione, certamente non meno importante, ed è relativo al diritto alla riservatezza della persona oggetto di indagine.
I dati relativi alla localizzazione del veicolo e al tragitto dello stesso riguardano, infatti, una persona fisica identificata o identificabile, e la legittimità del trattamento di questi dati deve superare il vaglio di un bilanciamento tra il diritto di difesa e le altre fondamentali libertà individuali (quale ad esempio il diritto alla riservatezza).
Il trattamento dei dati raccolti deve pertanto essere conforme al GDPR 679/2016, con particolare riferimento alla finalità, ai tempi di conservazione e alle modalità di diffusione delle informazioni raccolte.
Questo aspetto - che nulla ha a che vedere con la irrilevanza penale dell'utilizzo del GPS - è spesso tralasciato. La conseguenza è che la denuncia penale viene inizialmente archiviata, ma non è inusuale che successivamente una nuova denuncia venga riproposta con successo relativamente alla violazione della tutela dei dati personali, proprio perché non sono stati presi i dovuti accorgimenti e rispettati gli adempimenti previsti dalla nuova normativa sulla privacy.
L'esito finale sarà l'archiviazione della denuncia per illecita interferenza nella vita privata, cui seguirà però, una pesantissima multa per violazione del GDPR, fatta salva la possibilità che questa violazione non comporti essa stessa una responsabilità penale per inesistenza del bilanciamento dei diritti di cui sopra.
Si ricorda, inoltre, che per utilizzare il GPS resta indispensabile provvedere alla compilazione del registro degli affari, acquisire un incarico scritto in cui viene appunto evidenziato il rapporto tra committente e persona oggetto di indagine, nonché la specifica del diritto da tutelare in sede giudiziaria.
GPS sì ma nel rispetto della privacy
In conclusione, sia da un punto di vista penale sia di privacy è assolutamente legittimo l'uso di un sistema GPS da parte di un investigatore privato per seguire gli spostamenti di una persona.
È però necessario che i dati siano raccolti e trattati per il tempo strettamente necessario allo svolgimento dell'indagine, e con il solo fine di tutelare o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Ecco alcune delle più interessanti sentenze della Cassazione in materia di separazione consensuale:
Cassazione n. 11486/2022
L'atto con il quale un coniuge, in esecuzione degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale, trasferisca all'altro il diritto di proprietà (ovvero costituisca diritti reali minori) su un immobile, esso si ritiene ugualmente suscettibile di azione revocatoria ordinaria, non trovando tale azione ostacolo né nell'avvenuta omologazione dell'accordo suddetto - cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione -, né nella circostanza che l'atto sia stato posto in essere in funzione solutoria dell'obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli.
Cassazione n. 41232/2021
L'assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale consensuale in omologa di accordo che non ne preveda la decorrenza, è dovuto, sia pure a condizione che l'omologa intervenga e non disponga diversamente, fin dal momento del deposito del ricorso per separazione e non solo dalla data di pronuncia dell'omologa.
Cassazione n. 17908/2019
Le attribuzioni patrimoniali dall'uno all'altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell'evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell'atto di "donazione" vero e proprio, e dall'altro, a quello di un atto di vendita; tali attribuzioni svelano una loro "tipicità", la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva "onerosità", ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all'art. 2901 c.c., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati (o eventualmente, solo riflessi) patrimoniali, i quali, essendo maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre - guardati con sguardo retrospettivo immediatamente riconoscibili come tali.
Cassazione n. 6145/2018
La situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, e, pertanto, il Tribunale è tenuto a pronunciare la sentenza non definitiva di separazione (scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, facendo ad essa seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni. Tale pronuncia non definitiva costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un'arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perchè è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l'effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell'assegno di divorzio; pertanto, deve reputarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2, 29 e 111 Cost.
Cassazione n. 16909/2015
La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare il cui contenuto essenziale è rappresentato dal consenso reciproco a vivere separati, dall'affidamento dei figli e, ove ne ricorrano i presupposti, dall'assegno di mantenimento. Esso ha poi un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione e che è rappresentato da accordi patrimoniali autonomi conclusi dai coniugi in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata.
Nelle cause risarcitorie derivante dalla responsabilità medica al paziente spetta dimostrare il nesso di causa tra la condotta del medico e il danno riportato, al medico invece di aver rispettato pienamente le leges artis o le best practices
La prova del nesso di causa è a carico del paziente
La donna che dopo un intervento di mastoplastica additiva, rileva la presenta di un inestetismo, consistente nella lieve asimmetria del seno, deve dimostrare, se vuole ottenere il risarcimento, il nesso di causa tra la condotta e il danno riportato. La stessa non può limitarsi a richiamare le conclusioni, tra l'altro non totalmente a suo favore, della ATP effettuata a distanza di quasi nove anni dall'intervento. Occorrono prove maggiori ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria da responsabilità medica. Queste le conclusioni del Tribunale di Reggio Emilia nella decisione del 16 febbraio 2022.
Asimmetria mammaria dopo mastoplastica additiva
Una donna si sottopone a un intervento di chirurgia estetica al seno. A distanza di otto anni e mezzo promuove un accertamento tecnico preventivo art. 696 c.p.c nei confronti del medico che l'ha operata e del Centro medico presso cui l'intervento è stato eseguito, ritenendo la sussistenza della colpa medica e chiedendo la relativa quantificazione dei danni subiti.
In seguito la paziente promuove giudizio di merito sempre verso la struttura e il medico perché l'accertamento ha dimostrato la erronea esecuzione dell'intervento che ha prodotto inestetismi derivanti dalla diversa forma e dimensione delle due mammelle. Chiede quindi a titolo di risarcimento la somma di Euro 3.900,30.
Il Centro medico resiste in giudizio (contumace il medico) e contesta la domanda perché la leggera asimmetria mammaria è frutto di una complicanza che è stata ben descritta alla paziente, che quindi ne era a conoscenza.
Non spetta il risarcimento al paziente che non prova il nesso
Il Tribunale di Reggia Emilia chiamato a pronunciarsi precisa prima di tutto che: "spetta innanzitutto al paziente provare il nesso causale tra l'insorgere della patologia e la condotta del medico; solo in un secondo momento, laddove il paziente abbia dato prova di tale ciclo causale, il sanitario deve provare il pieno rispetto delle leges artis o comunque delle best practices, evidenziando la causa non imputabile che gli ha reso impossibile fornire la prestazione corrispondente ai canoni di professionalita? dovuti."
Ne consegue che se la causa del danno è incerta perché il paziente non prova il nesso tra condotta del medico e patologia, il giudice non può che rigettare la domanda.
Passando quindi all'esame del caso di specie, il Tribunale rileva che l'accertamento tecnico preventivo effettuato a distanza di quasi nove anni e in assenza di documentazione intermedia prodotta da parte attrice ha reso difficile l'espletamento della procedura peritale, la quale ha concluso per il danno si è verificato probabilmente per la "contrattura capsulare, evento prevedibile ma non prevenibile dai Sanitari, per cui non sarebbe rilevabile alcuna censura."
In sostanza dall'ATP è emerso che i modesti inestetismi quantificati nella percentuale dello 2,5% di danno biologico non sono sicuramente riconducibili alla colpa medica e che la lieve dismorfia è frutto di una contrattura capsulare, prevedibile ma non prevenibile.
La difesa di parte attrice tuttavia, nonostante tali incertezze, nulla ha osservato al riguardo, per cui la domanda deve essere rigettata, con conseguente condanna alle spese di lite in favore del Centro medico costituitosi.
E' perseguibile chi viola l'altrui sfera sessuale nel Metaverso? Il caso di Horizon Worlds in cui l'avatar di un'utente ha subito palpeggiamenti
Molestie sessuali online e loro punibilità
Nuove frontiere digitali, nuovi contesti in cui può esprimersi l'umana idiozia. Il caso di una donna vittima di molestie sessuali in un ambiente di realtà virtuale apre nuovi interrogativi nel mondo del diritto.
L'obiettivo è comprendere se comportamenti che sarebbero punibili nella realtà possano esserlo anche quando sono tenuti in contesti completamente digitali, virtuali, immateriali.
Il caso Horizon Worlds: utente "palpeggiata" nel Metaverso
Il caso incriminato si è verificato sulla piattaforma Horizon Worlds, afferente alla società Meta di Mark Zuckerberg (quello di Facebook, per intenderci).
Tale piattaforma ricrea un ambiente completamente virtuale, il cosiddetto Metaverso, in cui, grazie all'utilizzo di dispositivi di controllo dei movimenti e ad un visore, si guida il proprio avatar, cioè un personaggio che si muove all'interno di quell'ambiente virtuale, interagendo con gli altri personaggi, guidati da persone reali che fisicamente si trovano in altri luoghi distanti, anche dall'altra parte del mondo.
Ebbene, proprio questa interazione è sfociata in un episodio che, se fosse successo nel mondo reale, sarebbe qualificabile come palpeggiamento da parte di un avatar guidato da un uomo ai danni di un avatar guidato da una donna, con tanto di commenti sessisti da parte di altri utenti collegati.
La donna ha sporto denuncia, e al riguardo possono rilevarsi due conseguenze. Una di ordine giuridico: nel diritto statunitense, la fattispecie, benché avvenuta in ambiente virtuale, configura il reato di molestie sessuali e risulta, perciò, perseguibile.
L'altra di ordine più pratico: Meta, attraverso i suoi esponenti, si è scusata, ed ha prontamente introdotto una nuova funzione nel programma, chiamata Safe Zone, che impedisce, quando attivata, agli altri personaggi di avvicinarsi troppo al proprio avatar.
Il reato di molestie sessuali nel nostro ordinamento
Partiamo da quest'ultimo aspetto per evidenziare che la soluzione tecnica, per quanto apprezzabile, rischia di far ricadere sull'utente la responsabilità di non aver saputo evitare le eventuali molestie ricevute. Sarebbe, però, auspicabile che il programma impedisse in radice la possibilità che simili episodi possano verificarsi, senza richiedere alcuna attività da parte dell'utente.
Quanto al primo aspetto evidenziato, invece, che è quello che qui maggiormente interessa, va rilevato che il diritto italiano presenta delle particolarità che rendono un po' più complicata la questione relativa all'inquadramento giuridico di un fatto del genere.
La mancanza di un effettivo atto materiale - manca il contatto fisico vero e proprio - impedisce, infatti, di ricondurre la fattispecie nell'ambito della violenza sessuale disciplinata e punita dall'art. 609-bis c.p.
Il nostro ordinamento, inoltre, non prevede, a differenza di altri, un autonomo reato di molestie sessuali.
Metaverso: necessità di una disciplina per i reati sessuali online
Ciononostante, un importante appiglio giuridico lo offre l'art. 660 c.p. e la sua interpretazione fornita, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza.
Tale norma punisce il reato di molestie alla persona, intese come il comportamento con cui, in luogo aperto al pubblico, si arrechi ad altri molestia o disturbo per motivi meritevoli di rimprovero.
Ebbene, da questa generica definizione, relativa a comportamenti che possono anche non avere nulla a che fare con la sfera sessuale, la giurisprudenza ha provato ad elaborare la specifica figura delle molestie a sfondo sessuale, che, pur in mancanza dell'atto materiale del contatto fisico tipico della violenza sessuale, si sostanziano in espressioni volgari a sfondo sessuale o in atti di corteggiamento invasivo ed insistito (v. Cass. n. 2742/10).
Ebbene, una simile ricostruzione dovrebbe essere sufficiente a ricomprendere, o almeno a fornire l'aggancio per ricondurre nell'alveo delle molestie a sfondo sessuale - e quindi punire - anche quei comportamenti realizzati per mezzo di dispositivi elettronici nel contesto di ambienti virtuali.
Sul punto, però, sarebbe sicuramente opportuno - oltre che un auspicato progresso culturale da parte di tutti - un intervento del legislatore, anche comunitario, specificamente mirato a punire, senza possibilità di equivoci, simili comportamenti e a tutelare la dignità della persona e la sfera privata, massimamente quella sessuale, di ogni individuo, anche quando la stessa possa venire offesa o violata in ambienti completamente virtuali e digitali.
Perché immateriale non significa inesistente, e ciò che avviene online viene senza ombra di dubbio subito dall'individuo nella sua dimensione reale di persona fisica.
La procedura dinanzi all’ufficiale di Stato civile del Comune per la separazione, il divorzio e la modifica delle condizioni di separazione e divorzio.
La coppia sposata che voglia separarsi, oppure la coppia già separata che voglia divorziare, può dirsi addio anche in Comune, presentandosi all’ufficio di stato civile: una novità entrata in vigore poco meno di due anni fa che, tuttavia, è consentita solo a determinate condizioni. In questa breve scheda, vi spiegheremo come separarsi o divorziare in Comune, tutti gli adempimenti burocratici da compiere, i documenti da presentare e i passi da seguire per procedere senza bisogno di avvocati e giudice.
Quando ci si può separare o divorziare in Comune?
La separazione o il divorzio in Comune, presso l’ufficio di stato civile, è consentito solo a determinate condizioni:
- la coppia non deve avere avuto figli dall’unione i quali siano ancora minorenni, maggiorenni non autosufficienti, portatori di handicap o incapaci. Non vengono considerati i figli nati da eventuali precedenti relazioni: per cui la loro presenza non è ostativa alla separazione in Comune. È possibile la separazione o il divorzio in Comune se la prole ormai lavori e sia indipendente da un punto di vista economico;
- la coppia deve avere trovato un accordo su tutti gli aspetti della separazione, sia per quanto riguarda le questioni più marcatamente personali che patrimoniali. In buona sostanza, la separazione o il divorzio in Comune sostituiscono la cosiddetta separazione / divorzio consensuale che prima si faceva, in un’unica udienza, davanti al Presidente del Tribunale;
- l’accordo non può disciplinare trasferimenti patrimoniali tra i coniugi come, ad esempio, l’assegnazione della casa, arredi e altri mobili presenti nell’abitazione, l’autovettura, conti correnti bancari, titoli, depositi, libretti di risparmio, ecc. In termini pratici questo significa che marito e moglie non potranno stabilire, nell’atto firmato in Comune, la divisione di beni come l’armadio, la televisione, la macchina, ecc. Dovranno farlo, allora, con un’autonoma scrittura privata tra questi firmata in separata sede oppure ricorrendo alla negoziazione assistita degli avvocati, che è un ulteriore mezzo per separarsi o divorziare (di cui parleremo più in là in questa scheda).
L’accordo può contenere anche patti aventi ad oggetto l’assegno di mantenimento e l’assegno divorzile.
Per coloro che vogliano separarsi consensualmente ma che non si trovano nelle condizioni appena elencate (per es. per via della presenza di figli minori o perché intendano effettuare trasferimento patrimoniali), la legge prevede la possibilità di rivolgersi, oltre che al Tribunale, anche direttamente ai propri avvocati attraverso il procedimento chiamato “negoziazione assistita”.
Dove ci si deve presentare per separarsi o divorziare?
I coniugi possono recarsi sia presso il Comune ove hanno contratto matrimonio che presso il Comune di residenza di uno dei due coniugi o di entrambi. In particolare bisognerà presentarsi all’Ufficio di stato civile.
Quali documenti occorrono per separarsi o divorziare?
Quanto alla documentazione necessaria per attivare il procedimento innanzi all’ufficio di stato civile, è necessario:
- per la separazione: documento di identità dei coniugi e l’autocertificazione qui allegata (si rilascia la copia in uso a Milano) contenente le dichiarazioni sulla residenza, luogo e data di matrimonio, assenza di figli.
- per il divorzio: documento di identità dei coniugi; l’autocertificazione qui allegata (si rilascia la copia in uso a Milano) contenente le dichiarazioni sulla residenza, luogo e data di matrimonio, assenza di figli. Andrà poi presentata la copia conforme rilasciata dalla cancelleria del tribunale della sentenza di separazione giudiziale (se i coniugi si erano separati in via giudiziale in tribunale) o del decreto di omologa di separazione (se i coniugi si erano separati consensualmente in tribunale) o l’originale dell’accordo di separazione (se i coniugi si erano separati con la negoziazione assistita).
Quali costi bisogna sostenere?
Per separarsi o divorziare in Comune non è dovuto solo un diritto fisso di € 16,00 in contanti. Non essendo necessari avvocati, non ci saranno altri costi da sostenere.
Quale procedimento seguire per separarsi o divorziare?
In alcuni Comuni è richiesto un primo e informale incontro solo al fine di verificare la documentazione e la competenza dell’ufficio a ricevere l’atto. Viene quindi avanzata la richiesta di avvio del procedimento (in alcuni Comuni è richiesta la compilazione di un modulo prestampato). In altri Comuni, invece, si deve telefonare per concordare un appuntamento per procedere all’iter di separazione o divorzio.
La procedura vera e propria viene cadenzata in due incontri:
- al primo incontro il Sindaco o l’ufficiale di stato civile redige l’accordo di separazione che i coniugi gli riferiscono avere raggiunto. Dopo aver compilato l’accordo, il pubblico ufficiale dà ai coniugi appuntamento per un secondo incontro che non può essere prima di 30 giorni;
- al secondo incontro, viene richiesto ai coniugi di confermare l’intenzione di separarsi o di divorziare. La ragione di questo lasso di tempo è per consentire loro una pausa di riflessione sulla scelta in atto.
Se al secondo appuntamento si presentano entrambi i coniugi l’accordo di separazione è valido ed ha la stessa efficacia della sentenza di separazione omologata dal tribunale. Il Comune, a questo punto, invia l’atto agli uffici competenti per le annotazioni sull’atto di matrimonio. I coniugi possono sempre chiedere una copia autentica dell’accordo depositato in Comune.
Se, invece, al secondo appuntamento non si presenta uno o entrambi i coniugi, l’accordo di separazione non è valido e decade. I coniugi potranno tuttavia presentarsi in qualsiasi successivo momento per avviare, di nuovo, l’intera procedura da capo: il fatto di aver fatto decadere un primo tentativo non preclude la possibilità di riprovarci in seguito.
È necessaria la presenza dell’avvocato?
Nella separazione o divorzio davanti al Comune non c’è bisogno di avvocati; tuttavia nulla esclude che una delle due parti o entrambi si facciano accompagnare da altri soggetti, ivi compreso il difensore.
Dopo quanto tempo il divorzio dalla separazione?
Per chi si è separato e vuole divorziare in Comune, il procedimento può essere attivato solo a condizione che:
- siano decorsi sei mesi, se la precedente separazione era stata consensuale (in tribunale, in Comune o con la negoziazione assistita);
- sia decorso un anno, se la precedente separazione era stata “giudiziale” (ossia con una causa in tribunale).
Modifica degli accordi
Insieme agli accordi di separazione o divorzio i coniugi possono regolare in Comune anche eventuali modifiche degli accordi di separazione o divorzio precedentemente fissati.
L’iter e le condizioni sono le stesse analizzate sino a qui: pertanto è consentita la modifica degli accordi a condizione che non vi siano figli minori o figli maggiorenni portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti. Le condizioni oggetto della modifica non dovranno essere relativi a patti di trasferimento patrimoniale con effetti reali .
Anche per la modifica è previsto il deposito di un’autocertificazione e due incontri. Il costo è di 16 euro a titolo di diritto fisso.
Se uno dei due coniugi non vuole venire in Comune?
Per la separazione o il divorzio in Comune è necessario il consenso di entrambi i coniugi. Pertanto, se manchi uno dei due coniugi la procedura suddetta non può essere espletata e non resta che la separazione giudiziale in tribunale.
La negoziazione assistita
La legge prevede anche l’istituto della convenzione di negoziazione assistita davanti ad avvocati nominati dai coniugi per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
Tali convenzioni possono essere stipulate in presenza di figli minori o maggiorenni incapaci, o con un grave handicap o economicamente non autosufficienti.
L’accordo può contenere patti di natura patrimoniale (economici e finanziari) tra i coniugi.
Per redigere queste convenzioni i coniugi devono rivolgersi ad avvocati di loro fiducia.
L’invio all’Ufficio di Stato civile delle convenzioni deve essere curata dagli avvocati che hanno prestato assistenza ai coniugi. L’invio della documentazione può essere effettuato anche a cura di un solo avvocato che abbia assistito uno dei coniugi ed autenticato la sottoscrizione.
In alcuni Comuni è richiesta la procedura telematica, per cui ogni avvocato, coinvolto nella negoziazione assistita, deve inviare all’ufficio dello stato civile una copia della convenzione, riprodotta tramite scanner e accompagnata da una sua dichiarazione che attesti che tale copia è relativa all’originale cartaceo (usare formato pdf firmato digitalmente).?
In caso di convenzione di divorzio gli avvocati dovranno inviare copia conforme rilasciata dalla cancelleria del tribunale della sentenza di separazione giudiziale o del decreto di omologa di separazione o l’originale dell’accordo di separazione. Questa deve essere inclusa nel file che contiene la convenzione firmata digitalmente.
Come dimostrare l’infedeltà coniugale: tutto ciò che non si può fare e che si può fare. Quando la ricerca delle prove di un tradimento diventa reato.
Benché l’infedeltà sia ancora una delle cause più ricorrenti di separazioni tra coniugi, dimostrare un tradimento non è facile. E questo perché, da un lato, le prove che si possono presentare in tribunale devono essere sempre acquisite nel rispetto dell’altrui privacy. E dall’altro perché, il più delle volte, il rapporto extraconiugale si consuma in ambienti chiusi, privi di testimoni. Non resta che la confessione da parte dello stesso coniuge fedifrago. Ma anche in questo caso ci si può imbattere in qualche problema di carattere processuale. Il fatto di confessare un tradimento non vale sempre come prova in tribunale. Ma sul punto sarà bene fare alcune riflessioni rispondendo alle domande più frequenti che si pongono sul tema.
Quali prove di un tradimento?
Dicevamo che dimostrare un tradimento è compito piuttosto arduo. Le prove in un processo civile sono normalmente costituite da documenti e testimonianze oppure dalla confessione fatta in causa dinanzi al giudice. Ma, nell’ambito di un giudizio di separazione o divorzio, difficilmente è possibile raggiungere tali risultati.
Per comprendere ciò che stiamo per dire è bene partire da un concetto giuridico cardine di ogni processo: non sono utilizzabili le prove acquisite in violazione della legge e, in particolare, della privacy altrui. Ragion per cui, per dimostrare un tradimento, bisogna agire non in modo scorretto ma nel rispetto delle leggi. Vedremo qui di seguito quali prove non sono ammesse.
Quali prove di un tradimento non sono ammesse in processo
Entrare nell’account social o nelle email del coniuge senza il suo consenso, per spiare il contenuto delle sue conversazioni, è illegale e integra un reato, quello di «accesso abusivo a sistema informatico». Non conta il fatto di aver ricevuto in passato la username e la password per altre finalità: ogni accesso deve essere specificamente autorizzato.
Strappare di mano il cellulare del coniuge per vedere con chi chatta è reato: quello di rapina. Così almeno ha sentenziato più di una volta la Cassazione.
Lasciare un registratore acceso in casa per sentire cosa dice il coniuge quando non si è dentro integra il reato di indebite interferenze nella vita privata. E lo stesso se si attiva un gps e lo si nasconde nell’auto.
Leggere le chat contenute in uno smartphone protetto da password o comunque custodito in un posto riservato è ugualmente reato di violazione della privacy.
Cosa resta da fare? L’unico modo è pizzicare il fedifrago con le mani nel sacco. Come? Ad esempio con una prova fotografica, realizzata magari da un investigatore privato. Quantomeno pedinare una persona, purché non si venga visti e non si generi allarme e preoccupazione nel soggetto in questione, non è reato.
Ma attenzione perché le foto possono essere contestate facilmente, non essendo facile risalire in modo certo alla data (i dati informatici presenti sul file non costituiscono una prova certa).
La confessione di un tradimento vale come prova?
Non resta che sperare in una confessione da parte del traditore. Una confessione che, per avere pieno valore, andrebbe fatta dinanzi al giudice perché solo in questo caso costituirebbe una “prova legale”, ossia certa e inoppugnabile.
Le cose vanno diversamente se la confessione avviene oralmente, nell’ambito di una discussione casalinga, e in assenza di testimoni. Questo perché le dichiarazioni delle parti in causa, ossia dei due coniugi, non possono essere assunte come prova in un processo civile. E quindi il giudice non potrà tenere conto del fatto che il coniuge tradito assuma che, nel corso di una lite, l’altro gli ha rivelato la propria relazione adulterina. Potrebbe registrarlo: e in quel caso la registrazione costituirebbe prova, purché non avvenga in casa. Le registrazioni all’insaputa dei presenti sono infatti lecite a patto che non avvengano nel domicilio del soggetto registrato.
Ultima ipotesi: stimolare la confessione in una chat sul telefonino, ad esempio tramite WhatsApp. E le chat fanno piena prova se colui contro il quale viene prodotta non le disconosce in giudizio. Disconoscimento che non può essere generico ma deve motivare le ragioni concrete per cui la riproduzione della schermata deve ritenersi non genuina.
Proprio di recente il tribunale di Monza si è trovato a giudicare il caso di una confessione di un tradimento fatta dalla moglie al marito in una conversazione su WhatsApp. La moglie è stata inchiodata all’addebito della separazione perché aveva ammesso il tradimento del marito sulla chat. Inutile poi tentare di disconoscere la conversazione, quantomeno sulla certezza della data, per evitare che la relazione extraconiugale confessata fosse ritenuta il fatto scatenante che aveva fatto naufragare il matrimonio. Il contenuto delle conversazioni può essere valutato dal giudice in termini di presunzioni semplici, in quanto gravi, precise e concordanti.
Decisivi, quindi, nel caso si specie, gli estratti dall’applicazione di messaggistica prodotti dal marito: nel tentativo di riappacificarsi con l’uomo al corrente del tradimento la signora aveva ammesso quantomeno di aver «baciato» il collega di lavoro. E i messaggini WhatsApp sono assimilabili agli sms: rientrano nelle riproduzioni meccaniche e fanno piena prova contro colui il quale la chat è prodotta a meno che l’interessato non ne contesti la conformità ai fatti e alle cose rappresentate.
Come funziona il diritto di abitazione: quando la casa viene data all’ex moglie e come non perderla. Il caso della coppia convivente e di quella sposata.
La nostra legge prevede che, quando si separano due genitori di figli ancora minori o se maggiorenni non ancora autosufficienti, in mancanza di diverso accordo, il giudice affida la casa al genitore “collocatario”, quello cioè con cui, sempre secondo il giudice, i figli devono andare a vivere giornalmente. A questi viene attribuito il cosiddetto “diritto di abitazione”. Cerchiamo di approfondire il discorso e di vedere come viene assegnata la casa familiare in caso di separazione.
Quando viene assegnata la casa familiare?
Presupposto essenziale per l’assegnazione della casa familiare è che ci sia una coppia con figli che intende separarsi. Non importa se si tratta di una coppia sposata o solo convivente: in entrambi i casi, il giudice può decidere in merito all’attribuzione del diritto di abitazione all’interno dell’immobile che un tempo era il tetto domestico.
Il secondo presupposto per l’assegnazione della casa è che i figli siano ancora minorenni, o portatori di handicap o, se maggiorenni, siano non ancora autosufficienti dal punto di vista economico: il che richiede che stiano ancora studiando o si stiano formando. Diversamente, se il figlio non fa nulla per cercare un’occupazione o, già grande, vive alle spalle dei genitori, non solo non avrà diritto al mantenimento ma il genitore con cui convive perderà il diritto di rimanere nella casa familiare.
Il terzo presupposto per l’assegnazione della casa familiare è che vi sia una procedura di separazione giudiziale. Difatti, un eventuale accordo tra i genitori escluderebbe qualsiasi ingerenza da parte del giudice.
A chi va la casa familiare?
La casa familiare viene assegnata al genitore che, secondo il parere del giudice, è il più adatto a prendersi cura giornalmente della prole. Inutile dire che, nella stragrande maggioranza dei casi, questo è la madre. È il cosiddetto “genitore collocatario”, concetto completamente diverso da quello di affidamento.
L’affidamento consiste nei poteri-doveri dei genitori di prendere le decisioni più importanti in merito alla crescita, educazione, istruzione, salute dei minori. Di solito, l’affidamento è sempre condiviso: spetta cioè in pari misura sia al padre che alla madre i quali pertanto, quando si tratta di prendere le decisioni di “straordinaria amministrazione” dovranno prima confrontarsi e trovare un’intesa. La collocazione invece non può che avvenire in via preferenziale presso la casa di uno solo dei genitori.
Perché il giudice assegna la casa familiare?
Scopo dell’assegnazione della casa familiare non è un sostegno economico al genitore collocatario ma una tutela in più alla prole, affinché i figli non abbiano cioè a subire un ulteriore trauma, derivante dal trasferimento, oltre a quello della disgregazione del nucleo familiare.
Proprio perché la finalità è quella di tutelare i figli, l’assegnazione della casa familiare avviene sia nei confronti della coppia sposata che di quella di conviventi.
Come funziona l’assegnazione della casa familiare?
Il giudice assegna la dimora familiare e non un immobile qualsiasi: si tratta cioè dell’abitazione ove la famiglia viveva stabilmente prima della separazione. Quindi, in presenza di un nucleo familiare con più abitazioni, il giudice concederà il diritto di abitazione solo nella casa che era dimora abituale della coppia.
Chiaramente, il diritto di abitazione viene dato in pregiudizio del diritto del proprietario dell’immobile che dovrà perciò andare via.
La giurisprudenza ritiene che il diritto di abitazione debba essere concesso anche sulla casa concessa alla coppia in comodato da terzi (ad esempio dai genitori di uno dei due genitori), sempre che il contratto non prevedesse una data di scadenza.
Se l’ex moglie ha già una casa le spetta l’assegnazione della casa familiare
Il giudice può assegnare la casa coniugale alla moglie presso cui vivono i figli anche se questa è titolare di un proprio immobile, ove però la famiglia non viveva.
Come evitare l’assegnazione della casa familiare
L’unico modo per evitare l’assegnazione del proprio immobile all’ex coniuge è di non viverci, ossia di non adibirlo a dimora familiare. Come detto, infatti, il giudice assegna solo la casa ove la coppia viveva stabilmente prima della separazione.
Quando cessa l’assegnazione della casa?
Il diritto di abitazione viene meno quando i figli diventano grandi e possono mantenersi da soli, o quando diventano indipendenti economicamente, o quando decidono di andare a vivere altrove, o quando è lo stesso genitore con cui vivono che si trasferisce. Ma per riottenere il proprio immobile è necessario prima presentare ricorso al giudice affinché modifichi il proprio precedente provvedimento.
Rivelare un tradimento, comunicare al coniuge tradito la propria relazione, diffondere il fatto tra estranei è reato.
Rubare il marito a una donna non è reato. Da un lato, infatti, l’infedeltà non è un illecito penale ma solo civile. Dall’altro lato, tale illecito vale solo per le persone sposate e non per i terzi che ben potrebbero intromettersi in una relazione tra due persone senza per questo violare la legge. L’obbligo di fedeltà, del resto, vale solo per moglie e marito e non per gli estranei la cui libertà sessuale è tutelata dalla legge.
Ci sono però dei casi in cui l’amante può essere denunciata. E ciò succede, il più delle volte, quando è animata da propositi di vendetta. Ad esempio: cosa rischia l’amante che rivela la relazione al coniuge tradito o che la diffonde in pubblico?
La questione è stata oggetto di diverse pronunce da parte della giurisprudenza. Vediamo quando l’amante può essere denunciata.
Denunciare l’amante che entra in casa
Una ormai storica sentenza della Corte di Appello di Cagliari ha condannato l’amante per violazione di domicilio per essere entrata in casa del partner sposato quando il coniuge di questi era assente. La mancanza di consenso da parte del detentore dell’immobile – non importa se non ne sia anche il proprietario formale – integra il delitto in questione e può costare una condanna penale.
Denunciare l’amante che si vendica
Rivelare la propria relazione al coniuge del proprio amante è reato. Inviargli messaggi o chiedergli un appuntamento per svelargli tutto costituisce un illecito penale. Secondo la giurisprudenza, si può sporgere una querela per il reato di molestie. Che di certo non è un reato particolarmente grave ma peserà comunque sulla fedina penale dell’imputato e, dall’altro lato, lo obbligherà a pagare un avvocato per difendersi.
In un caso recentemente deciso dalla Cassazione, è stata condannata una donna che, tramite WhatsApp, aveva inviato alla moglie tradita immagini che testimoniano, in maniera inequivocabile, la concretezza della relazione avuta col marito fedifrago.
A finire sotto processo è una donna, Franca – nome di fantasia –. A farla finire sotto accusa sono alcuni Sacrosanta, secondo i giudici, la condanna per l’amante ritenuta colpevole di molestia ai danni della donna sposata.
Denunciare l’amante che rivela la relazione
L’amante che si confida con un’amica e le comunica la propria relazione con un uomo sposato non è responsabile di alcun reato né di un illecito civile. Ma può essere querelata per diffamazione se il suo comportamento si ripete con almeno due persone. E questo perché, così facendo, mina all’onore e alla reputazione del coniuge tradito e del traditore. Si può sporgere la querela entro 3 mesi da quando si è venuti a conoscenza del comportamento.
Secondo la Cassazione, rivelare in pubblico che una persona tradisce il coniuge è reato di diffamazione. Difatti tali informazioni, anche se fondate, mettono alla berlina sia il traditore che il tradito. Si crea cioè un danno alla reputazione di entrambi i coniugi e della famiglia stessa.
Si possono chiedere i danni all’amante?
Come anticipato in apertura, al di fuori dei reati appena elencati, non si può chiedere all’amante il risarcimento dei danni per aver sfasciato il proprio matrimonio e per aver magari inferto una profonda ferita ai figli. E, del resto, secondo la giurisprudenza, neanche il coniuge traditore deve risarcire il danno al tradito a meno che la relazione adulterina sia avvenuta in modo plateale, dinanzi a tutti, da incidere sulla reputazione di quest’ultimo. Fuori da questo caso isolato (isolato perché, di solito, i tradimenti si consumano in segreto), il traditore va incontro a due sole conseguenze:
- la perdita della possibilità di chiedere il mantenimento, qualora ne avesse avuto diritto per via delle sue condizioni economiche disagiate;
- la perdita dei diritti ereditari sull’ex.
Come vincere una causa di separazione e divorzio: che valore hanno le prove, chi può testimoniare e quali fatti dimostrare al giudice.
Le cause si vincono sulla base delle prove. Non basta avere ragione e affermare il proprio diritto con gran forza. Né è sufficiente avere un avvocato dotato della miglior retorica. E così anche le cause di separazione e divorzio necessitano di prove. Almeno quelle giudiziali, che non si chiudono con un accordo. Ma quali sono le prove in una causa di divorzio e soprattutto a cosa servono? Cosa è necessario dimostrare al giudice? Cerchiamo di fare un passo indietro. All’esito di questo articolo avremo dato al lettore non solo qualche cognizione di diritto processuale ma anche dei validi suggerimenti su come vincere la causa di separazione o divorzio. Ma procediamo con ordine.
Perché la causa di separazione o divorzio?
Separazione e divorzio possono realizzarsi o con l’accordo delle parti oppure nel corso di una causa. Nel primo caso si parla di separazione o divorzio consensuale, nel secondo caso di separazione o divorzio giudiziale.
La procedura consensuale si può realizzare in tre modi diversi:
- dinanzi al giudice (precisamente davanti al Presidente di Sezione), in un’unica udienza il cui questi, dopo aver tentato una (formale) conciliazione tra le parti, dà lettura dell’accordo da queste previamente concordato (per come redatto dai rispettivi avvocati) e lo approva;
- dinanzi all’ufficiale di stato civile del Comune (o davanti al sindaco stesso), in due incontri differenti con una distanza di 30 giorni l’uno dall’altro. Tale possibilità è ammessa solo in assenza di figli minori, portatori di handicap o maggiorenni non ancora autosufficienti. Inoltre non sono ammessi, nell’accordo, patti di trasferimento di beni (che andranno regolamentati con contratti autonomi). Per sapere di più leggi Separazione e divorzio in Comune: come si fa;
- con un accordo stilato e firmato con l’assistenza dei rispettivi avvocati e da questi poi depositato in tribunale: è la cosiddetta negoziazione assistita.
La procedura giudiziale invece consiste in una causa vera e propria, che inizia con l’atto di ricorso presentato da uno dei coniugi e la difesa successiva dell’altro. Il giudice ammette le prove richieste dalle parti e poi emette la sentenza.
La causa di separazione e divorzio viene intrapresa perché i coniugi non sono riusciti a trovare un accordo su uno o più aspetti dei loro rapporti economici o personali conseguenti alla cessazione del matrimonio. Essa potrebbe pertanto riguardare ad esempio:
- l’ammontare del mantenimento per l’ex coniuge più povero;
- l’ammontare del mantenimento per i figli;
- la collocazione dei figli presso uno dei genitori;
- l’affidamento dei figli (se congiunto o condiviso);
- le modalità di visita dei figli e la possibilità di un coniuge di trasferirsi altrove.
Perché le prove sono necessarie in una causa di separazione o divorzio?
Di solito, le prove sono più importanti nella causa di separazione che in quella di divorzio, dove normalmente il giudice si limita a prendere atto di quanto già era stato deciso nel precedente step della separazione, salvo siano intervenuti eventi nuovi e imprevedibili che abbiano mutato la situazione di fatto (ad esempio, un arricchimento o un impoverimento di uno dei due ex coniugi con conseguente richiesta di incremento o di riduzione dell’assegno di mantenimento; inadeguatezza di uno dei due coniugi ai compiti di genitore, ecc.).
Gli accordi stretti in sede di separazione non sono vincolanti con il divorzio. Ad esempio, se un coniuge, all’atto della separazione, rinuncia al mantenimento in cambio del trasferimento della proprietà di un immobile, con il divorzio potrebbe modificare la propria pretesa e pretendere anche l’assegno.
Di solito, le prove sono volte a dimostrare:
- la responsabilità di uno dei due coniugi nell’aver determinato, con il proprio comportamento, la crisi del matrimonio. Il che ne comporta l’imputazione di addebito, con conseguente perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede legittimario;
- la sussistenza di redditi nascosti e non dichiarati che potrebbero determinare un maggior importo del mantenimento;
- le esigenze economiche del coniuge che richiede il mantenimento o, al contrario, l’incapacità dell’altro di provvedervi per come richiesto dall’ex;
- l’inattitudine di uno dei due coniugi a gestire i figli o a prendere le decisioni più adeguate per la loro crescita. Nel primo caso, la battaglia si concentrerà sulla collocazione dei figli e, nel secondo, sull’affidamento.
Quali prove portare in una causa di separazione o divorzio?
Nel processo civile le prove sono “tipiche” ossia unicamente quelle indicate dal Codice civile. Solo oggi i giudici si stanno aprendo anche alle prove atipiche, come ad esempio le chat, gli screenshot, le email semplici.
Le prove in una causa di separazione o divorzio sono dunque quelle di qualsiasi altro processo. Le elencheremo qui di seguito.
Testimonianza
Possono testimoniare in causa tutti i soggetti, compresi parenti, affini e figli, tranne i due coniugi.
La testimonianza dei minori deve essere disposta con le opportune cautele per tutelare la loro psiche.
Il bambino con più di 12 anni deve essere obbligatoriamente sentito quando si decide sul suo collocamento e affidamento.
Il testimone è solo colui che ha visto i fatti o ne ha cognizione diretta (non sono ammessi i testimoni che hanno conoscenza dei fatti per “sentito dire”).
Le deposizioni dei parenti, affini o figli hanno lo stesso valore probatorio di quelle provenienti da terzi estranei.
È ad esempio frequente, essenzialmente ai fini dell’addebito, la testimonianza:
- dei parenti del coniuge che richiede l’addebito. La prova che la condotta di un coniuge ha determinato l’intollerabilità irreversibile della convivenza può emergere dalle loro testimonianze: i fatti che attengono all’intimità familiare infatti non possono che essere noti con più diretta conoscenza ai congiunti più prossimi;
- dei figli; ad esempio, può essere decisiva la testimonianza del figlio che conferma che la relazione extraconiugale del genitore è stata l’unica causa della crisi che ha portato alla fine del matrimonio.
Il divieto di comunicazione e diffusione dei dati personali non si applica alla narrazione dei fatti nell’ambito di una testimonianza: tale divieto infatti non può riguardare quelle attività necessarie o obbligatorie per le esigenze di difesa in giudizio quando sono rispettati i limiti della pertinenza e continenza. Il rispetto della privacy non può legittimare una violazione del diritto inviolabile di difesa che non può incontrare ostacoli o impedimenti nell’accertamento della verità.
Documenti e atti
Lettere, scritti, contratti, atti notarili e qualsiasi altro documento può entrare nel processo. Non hanno valore, nel nostro ordinamento, i cosiddetti patti prematrimoniali, quelli con cui le parti concordano in anticipo gli effetti di una eventuale separazione o divorzio. Tuttavia, è possibile che un coniuge si impegni a rimborsare l’altro, in caso di separazione, delle spese da questi sostenute per la ristrutturazione o edificazione della casa comune.
Fotografie
Le foto sono “riproduzioni meccaniche” che fanno fede solo se non contestate in giudizio dalla parte avversaria. Non basta una generica opposizione ma bisogna insinuare nel giudice il dubbio della mancanza di genuinità di tali documentazioni.
Chat, email, screenshot
I giudici ammettono oggi la prova acquisita tramite screenshot, sms, chat ed email a patto che non siano stati acquisiti con l’inganno o in violazione della privacy.
Confessione
La confessione di un coniuge, che può avvenire anche tacitamente (ossia in mancanza di contestazione di un fatto dedotto dall’avversario), è prova legale e vincola il giudice a tenerne conto senza potersi discostare più da esso.
Le indagini della polizia tributaria
Quando è in contestazione il reddito di uno dei due coniugi, l’altro può chiedere al giudice di ricostruire il suo tenore di vita sulla base delle spese da questi sostenute (affitto, viaggi, utenze, ecc.) oppure con una indagine tributaria da affidare alla finanza. In questo secondo caso, si procederà a delle vere e proprie verifiche fiscali.
L’investigatore privato
Spesso, si utilizzano detective privati per dimostrare l’infedeltà di uno dei due coniugi. Il relativo report scritto non è una prova; lo possono essere le foto se non contestate. In ultima analisi, l’investigatore potrà essere sentito come testimone dei fatti a cui ha assistito personalmente.
Cos’è l’addebito, cosa comporta e come si fa ad ottenerlo: quali le conseguenze sul mantenimento e sul risarcimento dei danni.
Forse non tutti sanno che, quando interviene la separazione, il giudice non è chiamato a stabilire chi dei due coniugi sia responsabile per la fine del matrimonio se prima non gli viene fatta una esplicita richiesta da una delle due parti. È la cosiddetta richiesta di “addebito”. Ma cos’è l’addebito e quali sono le conseguenze di una separazione con addebito? Possiamo innanzitutto dire che l’addebito è l’imputazione di responsabilità per aver determinato, con il proprio comportamento colpevole, l’intollerabilità della convivenza e aver così fatto naufragare l’unione coniugale. Insomma, subisce l’addebito chi è colpevole di aver dato causa alla separazione.
Addebito però non significa “risarcimento del danno” oppure “obbligo di pagare gli alimenti”. Altre sono le conseguenze dell’addebito. E di tanto parleremo meglio e più diffusamente nel corso del presente articolo.
Cosa significa addebito?
La parola “addebito” è il participio passato del verbo “addebitare” ossia “attribuire la colpa a qualcuno”: in questo caso si tratta della colpa per aver decretato la fine del matrimonio, l’intollerabilità della convivenza.
Intanto il giudice può pronunciare l’addebito a carico di uno dei due coniugi in quanto gli sia stata fatta esplicita richiesta con l’atto di ricorso.
Non è possibile pronunciare l’addebito nel caso di separazione di una coppia di fatto, non sposata, non esistendo, in capo ai relativi conviventi, degli specifici e cogenti obblighi di legge come invece per le coppie coniugate.
Chi subisce l’addebito è colui che viene quindi ritenuto responsabile, a seguito di una regolare causa, della violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio per come elencati dal Codice civile (e di cui a breve parleremo).
Non necessariamente un matrimonio deve terminare con addebito. Come noto, la separazione può essere pronunciata anche su semplice richiesta di una delle due parti, per cause non imputabili alla colpa di uno dei due. Un matrimonio può infatti terminare perché la coppia non va più d’accordo, perché uno dei due non ama più l’altro (non esistendo un obbligo di restare innamorati in eterno) o perché è finita quella comunione materiale e morale che deve sempre legare i coniugi.
La separazione con addebito o senza addebito segue le stesse regole, salvo solo le conseguenze che dall’addebito derivano e di cui parleremo più in avanti nel corso di questo articolo.
Chi stabilisce l’addebito?
A pronunciare l’addebito su una separazione o un divorzio può essere solo il giudice. E pertanto, la dichiarazione di addebito presuppone una procedura di separazione di tipo giudiziale, non consensuale. Quindi, laddove i coniugi riescano a trovare un accordo tra di loro che regoli i loro rapporti personali e patrimoniali dopo l’unione coniugale, non ci potrà essere alcun addebito.
Il giudice non è tenuto a pronunciarsi sull’addebito se nessuna delle parti in causa glielo chiede. Quindi, la richiesta di addebito va fatta con l’atto introduttivo che dà origine alla causa di separazione.
L’addebito viene accertato nel corso della causa, alla luce delle prove addotte dalla parte richiedente e viene sancito con la sentenza che chiude la causa di separazione.
Quando viene dichiarato l’addebito?
L’addebito viene dichiarato solo quando vengono violati gli obblighi di legge derivanti dal matrimonio ossia:
- fedeltà;
- convivenza;
- assistenza reciproca materiale e morale;
- rispetto;
- contribuzione alle esigenze del nucleo familiare.
Tanto per fare qualche esempio pratico, l’addebito viene dichiarato a carico di chi:
- tradisce il coniuge, anche solo virtualmente (ad esempio con una relazione a distanza tramite un social o una chat, senza necessità di contatti fisici);
- va via di casa senza una giusta causa, per un apprezzabile periodo di tempo, o senza l’intenzione di volervi più tornare oppure senza indicare quando tornerà;
- fa mancare al coniuge il proprio sostegno materiale ed economico, come nel caso del marito che, pur lavorando, non provvede alle esigenze economiche della moglie disoccupata;
- umilia, perseguita, svilisce il coniuge, in pubblico o in privato;
- non svolge attività lavorativa o domestica, non contribuendo ai bisogni della famiglia in proporzione alle proprie capacità economiche e fisiche.
In secondo luogo, l’addebito può essere dichiarato solo laddove vi sia uno stretto legame di dipendenza tra la violazione di uno dei doveri del matrimonio e la crisi coniugale. Tanto per fare un esempio, intanto si può addebitare la separazione al coniuge fedifrago se è stato proprio il tradimento a determinare la fine dell’unione; ciò non può invece avvenire se il tradimento è solo l’effetto di una crisi già in atto per precedenti motivi (si pensi a una donna che tradisce un uomo che la maltratta, la picchia o che è andato via di casa).
La prova dell’addebito
Il coniuge che richiede l’addebito deve provare che l’irreversibile crisi coniugale è ricollegabile esclusivamente al comportamento dell’altro contrario ai doveri nascenti dal matrimonio. Deve inoltre dimostrare l’esistenza di un nesso di causa-effetto tra il comportamento del coniuge e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
La prova può essere fornita con ogni mezzo, come ad esempio testimonianze, indizi, documenti, chat, ecc. Non valgono però le dichiarazioni delle parti in causa.
Quali sono le conseguenze dell’addebito?
Erroneamente, si crede che l’addebito implichi un risarcimento del danno o l’obbligo di corrispondere gli alimenti all’ex. Non è così.
L’assegno di mantenimento non dipende dall’addebito ma dalla sproporzione di reddito tra i coniugi, quando questa non dipenda da un atteggiamento colpevole del coniuge meno abbiente. Quindi, anche in una separazione senza addebito, la moglie disoccupata potrà chiedere il mantenimento se dimostra di meritarlo (ossia di trovarsi in tale condizione non già per pigrizia ma per necessità). Dunque, un marito fedele e rispettoso dovrà versare gli alimenti all’ex coniuge.
Quanto invece al risarcimento del danno esso scatta solo quando dall’addebito consegue la lesione di un diritto costituzionale come l’onore o la salute. Si pensi al caso di un tradimento avvenuto in pubblico, con conseguente danno alla reputazione del coniuge tradito; o al marito che picchi la moglie procurandole delle lesioni fisiche e/o un danno psicologico.
Ma allora quali sono le conseguenze dell’addebito? Il coniuge che subisce l’addebito:
- non può ottenere l’assegno di mantenimento, laddove ne abbia diritto, anche se le proprie condizioni economiche non gli consentano di mantenersi da solo;
- non ha diritto alla quota di eredità dell’ex coniuge qualora questi muoia prima del divorzio.
A quest’ultimo proposito è bene ricordare che, con la separazione, i coniugi continuano ad essere l’uno erede dell’altro (salvo appunto per il coniuge che abbia subìto l’addebito), mentre ogni diritto ereditario cessa sempre con il divorzio (indipendentemente dall’addebito).
Come detto, nel caso di evidenti lesioni a diritti costituzionali, l’addebito implica anche un risarcimento del danno che può essere richiesto nello stesso giudizio di separazione. Si tratta tuttavia dell’eccezione, che ricorre in casi particolarmente gravi.
Che succede se entrambi i coniugi sono colpevoli?
Se entrambi i coniugi hanno contribuito a rendere intollerabile la convivenza con comportamenti contestuali e non causalmente connessi, il giudice può addebitare la separazione a entrambi. È il cosiddetto doppio addebito.
In tal caso, il giudice valuta i comportamenti di entrambi i coniugi come gravemente contrari ai doveri imposti dal matrimonio e astrattamente idonei a produrre la rottura del rapporto coniugale.
Ad esempio è stato pronunciato il doppio addebito in un caso in cui:
- il marito ha tenuto una condotta violenta che comporta l’addebito, ma l’addebito è stato imputato anche alla moglie in quanto è stata provata una sua relazione extraconiugale;
- la moglie ha accusato il marito, in modo reiterato ed ossessivo, di adulterio e rapporti sessuali con altre persone di famiglia comunicando le accuse a parenti, amici, conoscenti e ai dipendenti del marito;
- moglie e marito si sono traditi reciprocamente e contemporaneamente (diverso sarebbe se un tradimento è successivo all’altro e determinato da ripicca: in tal caso, l’addebito viene pronunciato in capo al primo coniuge che ha commesso tale comportamento).
In caso di doppio addebito non può essere determinato alcun contributo per il mantenimento del coniuge economicamente più debole o meno colpevole.
Il giudice non può effettuare una graduazione fra le diverse responsabilità né fondare il riconoscimento dell’assegno sulla minore rilevanza che il comportamento di uno dei due ha avuto sulla situazione di intollerabilità della convivenza.
In sintesi, possiamo così concludere. Quando l’intollerabilità della convivenza o il pregiudizio per la prole sono la conseguenza diretta della violazione da parte di un coniuge dei doveri derivanti dal matrimonio, l’altro coniuge può chiedere la separazione con addebito.
La richiesta deve essere specifica e supportata da prove sulla violazione dei doveri matrimoniali.
Se ne ricorrono le circostanze, il giudice, pronunciando la separazione, dichiara a quale dei coniugi essa sia addebitabile.
Le ragioni che fondano la richiesta di addebito possono giustificare la richiesta di risarcimento dei danni presentata in un giudizio di separazione.
Impedimento alla visita fiscale di controllo, carattere della sanzione per assenza alla visita: le ultime dalla Cassazione in materia di visite fiscali
Impedimento alla visita fiscale di controllo
È legittimo il rigetto dell'istanza di rinvio dell'udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza per legittimo impedimento a comparire presentata dal condannato e documentata da un certificato medico, qualora l'indicazione nell'istanza della reperibilità del medesimo in un luogo diverso da quello in cui egli effettivamente si trovi abbia impedito l'esecuzione della visita fiscale di controllo. (Sez. 1, n. 26762 del 16/07/2020, Torres, Rv. 279784).
Cassazione, sentenza n. 35715 del 29/09/2021
Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare
La questione oggetto di giudizio non riguarda una sanzione disciplinare, ovverosia una prestazione imposta a titolo punitivo dal datore di lavoro, ma il regime delle obbligazioni al verificarsi di una malattia, allorquando risulti l'allontanamento del lavoratore negli orari di reperibilità utili allo svolgimento della c.d. visita fiscale. Ciò è reso evidente non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell'ambito del rapporto di R. G. n. 22760/2015 lavoro (art. 21, co. 13, del citato CCNL secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall'indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all'amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di "gestione" del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod. in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l'intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l'ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all'interno del rapporto previdenziale e quindi dell'I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest'ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.
Cassazione, sentenza n. 33180 del 10/112021
Accertamenti infermità per malattia del lavoratore
In tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza (Cass. n. 25162 del 2014; Cass. n. 11697 del 2020; Cass. n. 6236 del 2001). E' insito in tale giurisprudenza, invero, il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento di attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti.
Cassazione, sentenza n. 30547 del 28/102021
Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo — per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del DL. 12 settembre 1983 n. 463 (convertito nella legge n. 638 del 1983) prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia — non coincide necessariamente con la materiale assenza di quest'ultimo dal domicilio nelle fasce orarie predeterminate, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza di tale dovere di diligenza incombe sul lavoratore (v., ex plurimis, Cass. 22 maggio 1999 n. 5000).
Né ha rilievo che la mancata visita avvenga senza dolo da parte dell'interessato, perché ciò che è sanzionato è il fatto obiettivo in sé, indipendente dall'intenzione in concreto del lavoratore (Cass. 30 luglio 1993 n. 8484).
Cassazione, sentenza n. 4233 del 23.11.2021
Assenza giustificata alla visita fiscale
Il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall'obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l'allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un'improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità".
Cassazione, ordinanza n. 24492 dell'1/10/2019
Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre 1983 n. 638, - prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico dì malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore - pur presente in casa - che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore (cfr. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000).
Cassazione, sentenza n. 19668 del 22/07/2019
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- Tram 9, 29/30
- Tram 1, 5
- a 300 mt dalla Stazione Centrale (MM3-GIALLA)